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Il mio avo zampognaro

Il mio avo zampognaro

A novembre, quando il color oro e rossastro delle foglie, incanta di bellezza, avverto, all'improvviso, il Natale avvicinarsi. Prende, così, dolcemente vita, la fiaba di ieri e di oggi a riportare la dolcezza delle semplici cose. Il primo freddo richiama il calore di una fiamma accesa nel camino, dove gli occhi si posano per abbandonarsi ai ricordi. La prima sensazione che provo è il sentore di un suono melodioso che si avvicina piano. È una nenia di zampogne, a produrre l'incanto. I miei avi erano zampognari. Questo mi racconta, spesso, mio padre. Ecco perché, nella sua camera da pranzo, troneggia, appesa al muro, una zampogna, testimone di un tempo passato da tenere caro non soltanto nella memoria e nel cuore ma anche nello sguardo. Il nonno di mio padre, della famiglia di ramo femminile, tale Giuseppe Caputo, era, dunque, uno zampognaro. Lui partiva, con la sua zampogna nei primi giorni di dicembre, per rientrare in paese non prima del quindici gennaio. Lo accompagnava, nei suoi giri per i tanti paesi della Calabria, un suo cugino, tale, Vito Caputo che suonava la "pipita calabrese" (piffero).
Le nenie, bellissime, eseguite nelle piazze o vicoli, erano tante. Mi narra, ancora, mio padre, di una nenia particolarissima che ha avuto i natali proprio nel paese di Capistrano. Qualche Maestro del luogo, certamente innamorato del Redentore, ha composto un capolavoro di bellezza, che si tramanda ancor oggi sin dai tempi antichi. Cito alcune parole del testo: «Apri o terra il tuo bel seno e germoglia il Creatore, vieni, vieni che t'invito, vieni o caro Redentor. Dalle nubi e su dal cielo, corre l'acqua e il miele ancor». Parole, dunque, dolcissime e dal significato profondo, che sicuramente servivano ad accendere, ancora di più, una profonda devozione. E, il mio avo zampognaro, la sua fede semplice, genuina, la dimostrava alla partenza di ogni suo viaggio: egli entrava nella sua Chiesa, s'inginocchiava e il suo viso, per qualche istante si trasformava, sembrava parlasse con il Bambino Gesù, con il Paradiso, con gli angeli! I suoi occhi irradiavano una calda luce. Poi si benediceva con il segno della croce e usciva fuori, con nuova linfa, ad intonare, ancora, nenie melodiose. "Angioletti, sfiorate il bel sorriso al Bambino che è il Re del Paradiso" e poi ancora "Venite, adorate in povera culla, quel Dio che dal nulla il tutto formò", oppure "Di roventi stelle è pieno, tutto il ridente cielo del Nazzareno".
Il suono della zampogna, penso, arrivasse davvero fino a quel cielo stellato, testimone di quei giorni d'attesa del santo Natale, quando i capistranesi si concedevano una pausa di ristoro dal duro lavoro che li vedeva impegnati negli uliveti, nei vigneti, per procacciare alle famiglie il primario sostentamento. Per la novena, in preparazione al Natale, le viuzze si animavano, fino a tardi, di una gioia d'attesa. Anche il fumo dei camini aveva un profumo buono: era la frittura delle zeppole di grano duro e di "nacatole" impastate con il vino rosso locale, vanto, assieme all'olio, delle colture di Capistrano. Le famiglie aspettavano, nella notte, sull'uscio delle case, gli zampognari che suonavano le nenie, volevano condividere, generosamente, con loro, tutte le cose buone preparate dalle brave massaie. Se era caduta abbondante la neve, non poteva mancare sulle tavole, la famosa "scirubetta", era neve mescolata al mosto cotto, tale dolce, assieme ai fichi secchi, gelosamente custoditi, per le feste di Natale, rallegrava il convivio, quando tutto era una sinfonia di suoni, voci e colori. Sì, perché, il borgo di Capistrano, che ha dato i natali al mio avo zampognaro, è sempre stato un "piccolo gioiello" dai più vividi colori. Visto dall'alto, il paese, appare come una rondine che con le ali spiegate sta per spiccare il volo. Circondato da faggi, aceri, abeti e cascate fragorosissime, che cantano anch'esse una melodia! È immerso in una natura che invita all'estasi, tanto è bello! Quante volte, il mio bisnonno avrà attinto, da quel luogo incantevole, ispirazione, per le sue nenie. Non mi è difficile immaginarlo, al limitare di un bosco, magari con un gregge accanto, a brucare l'erba, e lui intento a intrecciare steli con le dita o a levigare, con passione, zufoli di canna dinanzi alla bellezza di quel paesaggio che lo faceva sentire figlio di quella terra, di quelle selve e fonti. La Chiesa era il cuore, il centro di tutto. A Natale si partecipava numerosi all'allestimento del presepe, forgiato su grandi panche di legno coperto da muschio verde, circondato ai lati, da sempreverdi rami di elce, strati di edera e paglia. Ai lati, sempre accesi, due lumi alimentati con olio d'oliva. E lì, in chiesa, la notte della vigilia di Natale, mi racconta ancora mio padre, succedeva una cosa stranissima, particolare, che mi ha incuriosito moltissimo. Come da tradizione, i capistranesi: vecchi, adulti, giovani spose, bambini e anche bambine, arrivavano in chiesa, per l'attesa della nascita del Salvatore, muniti di un fischietto, uno zufolo, un'ocarina; gli zampognari, naturalmente, con le loro ciaramelle, tutti insieme salutavano la nascita del Bambinello, con un frastuono fragoroso che durava parecchi minuti. Da dove arrivi questa tradizione, col tempo andata persa, non lo so. Posso solo immaginare che la fede, genuina, che nasce dal cuore può manifestarsi in modi diversi, anche se io azzardo a dire che il popolo capistranese, per natura gioioso, amante della musica, del ballo, della vivacità, nella sua espressione più bella, ha voluto omaggiare il Bambino Gesù con lo spirito più consono alla personalità del tempo, quando tutto era regolato dal sentimento, dalla genuina trasparenza. Fuori, rimanevano le stelle, spettatrici, ancora una volta, dello "zufolare" dei fedeli. Sotto un altro cielo della Calabria, nello stesso momento il mio bisnonno sussurrava note nella sua zampogna con il cuore diviso tra i due cieli, quello fin dove arrivavano le sue melodie e il cielo di Capistrano, nel tepore della Chiesa che nella santa Notte testimoniava una certezza: quella del Natale.

P.S.
Attraverso questi racconti di mio padre, ho conosciuto il mio bisnonno che suonava la zampogna. Ho capito, perché taluni miei familiari hanno ancora oggi l'appellativo di "ciaramejiari". Capisco inoltre perché, io e tanti miei parenti, al suono di una tarantella, non sappiamo trattenerci dal lasciarci andare alle ritmiche note. Voglio, infine, dedicare questo mio scritto a mia nonna Barbara, figlia dello zampognaro. Ormai da tempo non è più con me. A lei ho voluto tanto bene e siccome l'albero, si dice, che si vede dal frutto, penso che il mio bisnonno Giuseppe dovesse somigliarle molto. Lei, nonna Barbara, dal mio stesso nome, anche se l'appellativo con il quale mi chiamava sempre era un altro: "primavera de nannita".

 

18 Gennaio 2021 Barbara Esposito

 

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Autore : Barbara Esposito

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