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Il sole sorge alle ore 07:06 e tramonta alle ore 16:45 - Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio, Madonna della Salute
"Inviato da Dio per illuminare mirabilmente
quasi mistica fiaccola le tenebre del suo secolo" (Leone X,
"Excelsus Dominus", Bolla di Canonizzazione di San Francesco
di Paola, 1 maggio 1519).
Il Papa Leone X (1513, 1520) traccia con un solo tratto un quadro
di elementi essenziali alla comprensione dell'Eroicità di Francesco : le funeste
calamità che si abbatterono in Europa nel suo tempo, l'intervento misericordioso della
Provvidenza e i meriti del Santo di Paola.
Il XV secolo è il crinale da cui repentinamente prende accelerazione
la demolizione, che diverrà sistematica, di quel mondo cristiano che per tanti secoli aveva visto permeare
la vita quotidiana di una gran quantità di popoli da quei valori evangelici che costituivano il collante per
l'unità di culture diverse e la difesa più efficace delle libertà reali nella vita sociale.
Già nel XIV secolo appaiono i primi sintomi premonitori di virulenta
degenerazione che porteranno inesorabilmente a letale malattia.
Nella prima metà nel 1300 il frate francescano e filosofo inglese William Occam
(1300, 1349?) con la sua teoria definita "Nominalismo", asserisce non esservi alcun legame fra la
realtà e il pensiero umano, nega che ogni autorità possa derivare da Dio e che anzi questa è
un pesantissimo giogo del quale scrollarsi ad ogni costo.
Le dispute fra papato e autorità civile porta nel 1309 all'esilio di Avignone del Papa Clemente
V (1305, 1314), che durerà fino a quando Gregorio
XI (1370, 1378) riporterà la Sede Apostolica a Roma nel 1377.
Dall'anno successivo ha inizio lo Scisma d'Occidente (1378, 1408) che contrappone al Papa di
Roma l'antipapa di Avignone, con Clemente VII (1378, 1394) e Benedetto
XIII (1394, 1423). Il popolo cristiano è frastornato dalla presenza
contemporanea di due e, finanche, di tre papi.
Il XV secolo inizia, dunque, in una clima di massimo disorientamento spirituale
e di conseguente lassezza morale e civile.
Le classi colte del secolo nascente riscoprono, per mero esercizio culturale fine a se stesso, le bellezze formali
della classicità greco-romana.
Ammirandone le forme, indubbiamente belle, e senza alcun discernimento fra forma e contenuto, innescano quella
tendenza culturale, in seguito classificata "Umanesimo", che attribuisce al passato validità
sostanziale anche nella vita quotidiana e determina la diffusione di un neo-paganesimo, dell'edonismo, del
soddisfacimento inarrestabile e senza freni del piacere.
In seno alla Chiesa appaiono le figure di John Wycleff (1330 , 1384) in Inghilterra e
Giovanni Huss (1369?, 1415) e Girolamo da Praga ( ?, 1416) in Boemia che propugnano l'idea di "maggiore
democrazia" nella Chiesa e che danno avvio allo sgretolamento delle fondamenta del Papato fino alle estreme conseguenze
delle eresie di Lutero (1483, 1546), Calvino (1509, 1564), Zuinglio (1484, 1531) ed altri che ne seguiranno le orme.
La spiritualità, che tanta parte aveva avuto nei secoli precedenti nella vita dei popoli europei, resiste ancora soltanto
nei ceti più umili e meno dotti della società.
Nel XV secolo il numero dei Santi sfiora quasi il centinaio e la loro eroicità
è elevatissima, basti ricordare S. Vincenzo Ferreri, S. Bernardino da Siena, S. Giovanni da Capistrano. Tuttavia il loro
esempio e il loro stimolo non sono sufficienti a risvegliare il vero spirito religioso e a convertire quella tendenza culturale della
negligenza sistematica della morale, che è ormai avulsa dalla pratica di vita. L'osservanza di precetti religiosi si
riduce a puro atto esteriore, anche nelle confraternite a carattere religioso che in quel secolo erano molto diffuse e
numerose.
Le lotte contro ogni forma di autorità, concepita ormai come oppressione, la sete di accrescere il proprio prestigio e
l'individualismo pervadono tutti i livelli della vita civile.
I principati non sopportano più un'autorità superiore e muovono contro l'Impero. Le
città, i comuni, i feudi baronali vogliono liberarsi da ogni giogo e praticano la più efferata ferocia
per raggiungere lo scopo. Chi ha mezzi maggiori prevarica il vicino per appropriarsi del suo ed accrescere il prestigio
ed il potere personale.
Le popolazioni languiscono inermi ed indifese, alla mercé delle spoliazioni di capitani di ventura alla ricerca di
bottino e vittime, per il solo fatto di essere stati prima governati dai vinti, delle rappresaglie dei vincitori.
I maggiori regni si contrappongono gli uni agli altri. Le truppe inglesi, di Enrico V
(1387, 1422) prima e di Enrico VI (1421, 1471) poi, invadono il nord della Francia
e si appropriano di quei territori, mantenendo attiva una guerra sanguinosissima e l'oppressione sistematica
di quelle popolazioni che devono sottostare al loro dominio. Il 30 maggio 1431 S. Giovanna d'Arco, colpevole
di avere ridato al trono il legittimo re, subisce il martirio del rogo voluto dagli occupanti inglesi nella piazza del
mercato di Rouen.
La Francia, il maggior regno d'Europa, è in lotta cruenta con la Spagna, l'Inghilterra e l'Austria
per una disputa su territori e prerogative, a volte pretestuosa e dettata da spirito di prevaricazione.
Il Regno di Napoli, in questo clima di massimo disordine che regna in tutta l'Europa cristiana, vive, se possibile,
una situazione ancora più pietosa.
Nel 1414 muore il re Ladislao (1377, 1414), figlio di Carlo III di Durazzo, e sale sul trono di
Napoli la sorella Giovanna II (1371, 1435), che regnerà fino al 1435.
Le dissolutezze della vita privata della regina Giovanna, non a torto chiamata "Giovanna la pazza", la sua
incapacità a governare rettamente il suo regno e gli intrighi di potere della corte e di feudatari potenti contro la
corona fanno scempio della vita civile delle popolazioni dell'Italia meridionale.
Giovanna regnante, Luigi III d'Angiò (1403, 1434), in virtù di un
diritto di successione derivante dall'adozione del nonno Luigi fatta da Giovanna I
(1326?, 1382), con l'aiuto del capitano di ventura Attendolo Sforza muove assedio a Napoli.
Giovanna chiede l'intervento di Alfonso V d'Aragona (1416, 1458), promettendo
l'adozione e la successione al trono.
Alfonso, impaziente di appropriarsi del regno, fa arrestare Gianni Caracciolo, l'amante della regina divenuto molto
potente, e Giovanna revoca l'adozione e conferisce a Luigi d'Angiò il diritto alla successione. Luigi
riesce a cacciare gli Aragonesi e, con il titolo di Duca di Calabria, trasferisce la sua sede a Cosenza dove morirà
nel 1434.
Giovanna, ormai alla mercé della duchessa di Sessa Covella Ruffo che ha fatto arrestare ed uccidere Gianni
Caracciolo, nomina successore al trono Renato fratello di Luigi d'Angiò.
Alla morte di Giovanna, il 2 febbraio 1435, Alfonso d'Aragona avanza le sue pretese sul trono in opposizione a
Renato d'Angiò.
Dopo una guerra sanguinosa durata fino al 1442, che vede nel 1440 il capitano Centeglia mettere a sacco e incendiare
Cosenza colpevole di avere ospitato l'angioino, Alfonso conquista e riorganizza il regno, dopo tanti anni di anarchia
e malgoverno, concedendo ai nobili nuove prerogative e privilegi in cambio di elargizioni pecuniarie ed imponendo esosi
tributi per l'oneroso mantenimento della sua corte.
Nel 1458, alla morte di Alfonso succede al trono il figlio Ferdinando I, crudele e falso sia nella
vita privata che nel governo del suo regno.
I napoletani, per liberarsi di Ferdinando, invitano Giovanni, figlio di Renato d'Angiò, a lottare per la corona. Da
qui scaturisce un'altra guerra sanguinosa, che dissolverà rapidamente le magre risorse del regno a tal punto
che la regina Isabella è costretta a percorrere le strade della capitale con i suoi figli per questuare denaro e
approvvigionamenti per il re.
La guerra ha termine, dopo cinque anni con l'uscita dal regno delle truppe di Giovanni d'Angiò, soltanto
grazie all'aiuto del Papa Pio II (1458, 1464), del duca di Milano Francesco Sforza e
dell'eroe albanese Giorgio Castriota (1401, 1468) soprannominato Scanderbergh,
rifugiato con il suo popolo nel regno di Napoli in conseguenza alla sconfitta subita durante la sua lotta contro gli ottomani
invasori.
La repressione di Ferdinando verso quanti hanno appoggiato l'angioino non si fa attendere ed è crudele a tal
punto da indurre il Papa a comminargli la scomunica.
Per sostenere le spese di guerra, inoltre, il re istituisce quattro nuove imposte: il testatico a carico di ogni persona vivente,
sulle industrie, sui beni e sugli uffici. A queste si aggiunge anche il focatico, l'odiosissima imposta di un ducato per ogni
focolare, che grava su ogni famiglia a prescindere dalla sua capacità contributiva.
Quest'ultima imposta, in particolare, costringe i più poveri ad abbandonare i centri abitati e rifugiarsi in luoghi
isolati e lontani, alla mercé di bande di fuorilegge che li privano sistematicamente dei loro pochi beni di sussistenza e,
non raramente, della vita stessa.
É la Calabria in particolare a subire il maggior danno di questo clima di malgoverno e vessazioni. Il territorio calabrese
dell'epoca è coperto per più di tre quarti da fitte foreste, le strade di comunicazione sono poche e infide
e la scarsa popolazione non può neanche vivere lungo le coste, per i continui assalti delle feluche di pirati barbareschi
che saccheggiano e fanno schiavi quanti non uccidono. In simili condizioni, ogni imposizione gravosa per le popolazioni del
regno diventa insopportabile per i calabresi.
Questo secolo di nefandezze, dove il piacere, il potere e il prestigio personale sono sovrani a danno del prossimo e dove la giustizia,
la carità e l'ordine sono messe al bando, vede concretizzarsi copiosissima la Provvidenza di Dio in un uomo di
umili origini: Francesco.
All'alba del venerdì 27 marzo del 1416 a Paola, feudo sulla costa tirrenica cosentina di Covella Ruffo duchessa di
Sessa, la casa di Giacomo d'Alessio e Vienna da Fuscaldo è allietata dalla nascita di un bambino.
Giacomo, dedito alla pietà religiosa e amante della contemplazione, non è incline al matrimonio, tuttavia, per non
opporre rifiuto a suoi genitori che lo vorrebbero accasato, si decide a prendere moglie e sposa agli inizi del secolo, forse nel
1401, la giovane Vienna originaria di Fuscaldo, paese a pochi chilometri da Paola, come lui dedita alla preghiera e alle opere
di pietà.
Per circa quindici anni vivono la loro unione cristianamente e in serenità, con il solo rincrescimento di non avere
figli.
La loro fede non li fa disperare e rivolgono quotidianamente al Santo di Assisi, del quale sono ferventi devoti, la richiesta di
intercessione per ottenere la grazia di un figlio.
Quando finalmente vedono la loro supplica esaudita, con sollecitudine portano il bambino al fonte battesimale e gli impongono il
nome di Francesco per gratitudine verso il loro Santo Protettore.
La felicità di Giacomo e Vienna viene però offuscata dalla constatazione, quando Francesco non ha ancora compiuto
un mese di vita, che sull'occhio sinistro del bambino si forma un ascesso, subito diagnosticato dai medici come maligno.
L'ascesso cresce rapidamente minacciando la cornea e rischiando di infettare anche l'occhio destro. I medici
confessano la loro incapacità a trovarvi rimedio.
Ma Vienna, con la sua fede incrollabile, non tarda a rivolgersi a Dio e al Santo di Assisi suo protettore. Si reca nella vicina chiesa con
il bambino, lo offre a Dio e chiede a San Francesco di intercedere per ottenergli la grazia della guarigione del piccolo, facendo voto di
fargli indossare il saio francescano e di lasciarlo per un anno in un convento dei frati minori.
Tornata a casa, toglie la benda dall'occhio di Francesco e constata che l'ascesso è sensibilmente diminuito
d'estensione. In pochi giorni l'occhio torna sano, soltanto una piccolissima cicatrice resta a testimonianza
dell'accaduto.
Francesco cresce in età e virtù, ubbidiente agli insegnamenti dei genitori. L'anonimo contemporaneo
[p. Lorenzo delle Chiavi o Clavense, che aveva seguito Francesco alla corte di Francia] e che ha scritto una sua biografia
quando Francesco è ancora vivente, così ci narra della sua infanzia: "... non si rese mai meritevole
di riprensione alcuna; anzi cresceva, di giorno in giorno, in età, in sapienza e in buoni costumi davanti a Dio e dinanzi
agli uomini; sicché quanti lo osservavano ne restavano ammirati ...".
La sua gioia, anche in tenera età, è di porsi in contemplazione della Santa Croce e in venerazione della Santa Madre
di Dio.
Quando giunge all'età della prima comunione è affidato alla catechesi di padre Antonio Paparico da
Catanzaro, un santo frate minore conventuale Guardiano del convento di San Lucido, un paese alle porte di Paola, discepolo
di San Giacomo della Marca e amico di San Bernardino da Siena con il quale intrattiene corrispondenza epistolare.
Nel 1428, quando ha appena 12 anni, Francesco è
testimone di un fatto prodigioso raccontato dall'anonimo biografo
contemporaneo. Una notte, mentre riposa nella sua stanza, vede un frate minore illuminato da una luce sfolgorante che gli rivolge
queste parole : "Avvisate i vostri genitori che è tempo ormai di adempiere al voto, di farvi indossare per un anno
l'abito dei frati minori". Francesco non manca di chiedere subito e con insistenza ai suoi genitori di rispettare il
voto fatto, ricevendone il consenso.
In quell'anno, nel convento dei frati minori conventuali di San Marco Argentano [l'antica Argiro o Argentano,
denominata San Marco dopo il soggiorno dell'Evangelista] è Guardiano lo stesso padre Antonio Paparico,
che aveva curato la preparazione alla prima comunione di Francesco. I genitori accompagnano Francesco al convento di
S. Marco Argentano, distante 12 miglia da Paola, e lo affidano alle cure di padre Antonio.
L'anno di permanenza di Francesco al convento è costellata di episodi prodigiosi, raccontati da tutti i biografi e
testimoniati ai processi istruiti per la beatificazione e la canonizzazione.
Trascorso l'anno, quando giunge il momento del commiato, i frati sono riluttanti a vederlo andar via e cercano di
convincerlo a restare con loro definitivamente. Ma Francesco, pur ammirando la santità di quella comunità,
sa che la volontà di Dio lo vuole altrove a compiere altra missione.
Tornato a casa chiede ai genitori di accompagnarlo in pellegrinaggio ai luoghi santi di Roma e sulla tomba di San Francesco
ad Assisi. I genitori, preoccupati della difficoltà di un viaggio così lungo e pericoloso, cercano di dissuaderlo,
non riescono a vincere le sue insistenze ed acconsentono, convinti che non si tratta di devozione emotiva di un adolescente
ma di vera chiamata.
Dopo avere visitato Roma ed Assisi, alcuni biografi affermano che si recò anche alla Santa Casa di Loreto. A conferma
alcuni portano la tradizione del Santuario di Loreto e la presenza, in questo santuario, di un altare a lui dedicato, il terzo nella
navata laterale destra, con un mosaico riprodotto da un quadro di Antonio Cavallucci di Sermoneta.
Sulla strada del ritorno Francesco visita gli eremi di Monteluco, sui monti ad oriente di Spoleto, istituiti nel 528 dall'abate
Isacco, coetaneo di San Benedetto e profugo dall'oriente per sfuggire all'eresia eutichiana, e che aveva edificato
il primo eremo di San Giuliano martire.
La sua vocazione contemplativa lo avvicina alla religiosità di quei santi eremiti, convincendolo ad abbracciare quello stile di
vita solitaria, tanto che vorrà chiamare che il suo primo istituto dei "frati eremiti" ed adotterà un abito
del tutto simile a quello dei montelucani: un semplice saio di lana nera, quella scartata dai tessitori, a forma di sacco e legato in
vita da una corda annodata con due semplici nodi.
Continuando il viaggio del ritorno Francesco visita anche l'Abbazia di Montecassino, fondata nel 529 da S. Benedetto,
dove si ferma presso quei santi religiosi per chiedere di essere illuminato sulla volontà di Dio. Un suo biografo nota
come Francesco quando giunge a Montecassino ha quattordici anni e che San Benedetto a quindici si era ritirato nel Sacro
Speco di Subiaco ed aveva fondato il suo protocenobio. Non è improbabile che Francesco abbia trovato proprio in
quel luogo e su quell'esempio lo stimolo e il conforto per iniziare senza più esitare la sua vita di asceta.
Francesco, certo che la volontà di Dio sia questa, giunto alle porte di Paola comunica ai genitori di voler restare fuori dal
paese per condurre la sua vita in solitudine e penitenza : è il 1429 e Franesco ha quattordici anni. Il biografo ci dice che si
ferma in una capanna ricoperta di foglie secche in un piccolo podere dei genitori a poca distanza da Paola.
Così testimonia il testimone 6 al processo cosentino:
"Tornati dal pellegrinaggio, giunti presso il paese di Paola, il detto frate Francesco rimase fuori in un
tugurio. E interrogati i genitori dove lo avessero lasciato risposero: è rimasto fuori del paese perché
vuole farsi eremita."
Qui inizia la sua missione: penitenza, preghiera e ascolto della volontà di Dio, che si contrappone nettamente alla cultura del
tempo della ricerca del piacere e del soddisfacimento di ogni egoismo come unico scopo della vita.
I compaesani, che già avevano potuto apprezzare il valore di questo giovane, sono ancora di più attratti dalla sua
vita eremitica e si recano di continuo a visitarlo, distraendolo dalla sua ascetica contemplazione. Francesco decide di cercare un
luogo più appartato e, raccolti i suoi libri di preghiere e il Crocifisso che porta sempre con se, si incammina lungo il torrente
Isca che scorre nelle vicinanze, finché non giunge ad una piccola grotta nel fitto della boscaglia. Trovata una zappa
abbandonata, allarga la grotta per renderla grande abbastanza per ospitarlo. Questo è il suo noviziato di penitenza e
contemplazione che dura cinque anni.
Per cinque anni Francesco ha un'unica aspirazione l'ascetica contemplazione dell'Amore di Dio, e per
raggiungerla non esita alla più dura penitenza e mortificazione. Si nutre di erbe e radici, che riesce a trovare nel
bosco, e di qualche pane, donato di tanto in tanto dai suoi genitori che si recano a vederlo nella sua grotta, e si disseta
all'acqua del torrente.
Il testimone 1 al processo calabrese, Filippo Camigliano di Terra della Regina, narra come il Signore ha voluto che Francesco
lasciasse il suo eremo per iniziare la missione per cui l'aveva chiamato.
Quando Francesco aveva già trascorso cinque anni di vita di asceta nella più assoluta solitudine, alcuni cacciatori
inseguendo un cerbiatto scoprono il suo rifugio.
Il cerbiatto, atterrito dalla furia dei cani, si rifugia nella grotta di Francesco. I cani di fronte a Francesco si fermano e smettono di
latrare, mentre il cerbiatto spaventato si stringe alle sue spalle.
I cacciatori, sono stupiti dal comportamento dei cani e del cerbiatto e, ritornati a Paola, narrano l'accaduto. Inizia
così un pellegrinaggio continuo dei paolani alla ricerca del conforto e del consiglio di quel giovane eremita, che
già sapevano innammorato di Dio. Francesco, che ha appena diciannove anni, rinuncia alla sua contemplazione
solitaria per conformarsi alla volontà del Signore e accoglie amorevolmente quanti chiedono il suo aiuto.
Proprio in quell'anno 1435 che, alla morte di Giovanna II, il regno di Napoli comincia ad
essere scosso dalle devastanti lotte per il potere.
I testimoni 117 al processo calabrese e 58 al processo cosentino raccontano che Francesco, visto il grande afflusso di visitatori,
abbandona la sua grotta e si costruisce una casupola in pietra, dove può meglio riceverli, e inizia l'edificazione di
una piccola cappella, dove far celebrare le sacre funzioni. Riceve per queste edificazioni il permesso dal Arcivescovo Bernardino
Caracciolo, che dal 1424 governa la diocesi di Cosenza e che conosce Francesco sia per la fama di santità che rapidamente
si diffonde in tutta la diocesi sia per averlo incontrato di persona.
Il suo eremo diviene meta di persone da tutti i paesi del circondario e di ogni ceto sociale, dai nobili più potenti agli umili
più miserevoli, alla ricerca di conforto e sostegno per ogni sorta di bisogni materiali e spirituali e tutti senza eccezione
ascoltano con devota attenzione il giovanissimo eremita, sforzandosi di mettere in pratica i suoi consigli.
Intanto, cominciano a frequentare il suo eremo tre giovani: il paolano Fiorentino di cui si ignora il cognome, Angelo Alipatti di
Saracena nel circondario di Castrovillari e Nicola di San Lucido. Questi tre giovani chiedono e ottengono di vivere con lui la vita
penitente, di beneficiare del suo insegnamento e del suo esempio e di indossare il saio.
Aiutato dai tre giovani Francesco costruisce, vicino alla cappella, delle cellette per ospitarli. Questa piccola comunità vive
d'elemosina, nella preghiera continua e nella penitenza. Il popolo comincia a chiamarli Eremiti di fra' Francesco. Vivranno
l'insegnamento evangelico eroicamente per tutto il tempo della loro vita con la guida e l'esempio di Francesco. In
particolare fra' Nicola da San Lucido sarà sempre considerato da tutti beato, anche senza averne avuto alcun
riconoscimento canonico.
Secondo la tradizione è in questo periodo che Francesco riceve le Insegne dell'Ordine nascente: il cappuccio e lo
stemma. Mentre Francesco attende alla preghiera in luogo appartato, gli appare l'Arcangelo San Michele che gli reca un
cappuccio e uno stemma a forma di sole sfolgorante con la scritta Charitas al centro, su tre righe
quasi ad indicare, ci piace crederlo, che la venerazione instancabile di Francesco per l'Amore di Dio si fonda sul mistero
profondo della Santissima Trinità. Il cappuccio, che copre le spalle e il petto fin sotto le ginocchia, ha la forma
dell'elmo e della corazza del cavaliere medievale, a simboleggiare l'eroicità dello spirito. Subito le Insegne
donate dall'Amore di Dio a Francesco sono adottate dalla piccola comunità.
La fama di Francesco, grazie anche agli innumerevoli prodigi che il Signore compie per sua intercessione, si diffonde in tutta la
Calabria. Altri giovani sono attratti dalla santità di quella vita penitente e chiedono di potere indossare il saio e vivere
in quel luogo santo con lui.
Tra i primi ad unirsi a Francesco vi sono Baldassarre Spino, dotto e zelante sacerdote laureato in diritto che sarà validissimo
sostegno a Francesco per la nascita e la crescita dell'Ordine, e Paolo Rendacio da Paterno, nella provincia di Cosenza. Paolo
Rendacio, nobile paternese, nel 1442 si reca a Paola attratto dalla fama di santità di Francesco e, testimone di innumerevoli
prodigi e affascinato dal suo stile di vita, chiede di vestirne il saio e poterne seguire la regola. Sarà consacrato sacerdote e
diventerà preziosissimo consigliere di Francesco in tutte le sue opere più importanti. Alla sua partenza per la corte
di Francia, Francesco lo lascerà suo vicario in Italia.
Fra gli altri vi è un giovane di Paola, Giovanni soprannominato il semplice per la sua limitatezza intellettiva che lo rendeva
finanche incapace di pregare con le parole ma dedito costantemente alla preghiera mentale alla quale Francesco lo aveva educato
con successo, che sarà molto caro a Francesco. La sua ingenua semplicità, l'inesauribile fede in Dio e la
devozione verso Francesco lo indurranno senza alcun timore a seguire l'eremita nella prodigiosa traversata dello stretto di
Messina sul mantello.
Nel 1452 la comunità si è talmente estesa e l'afflusso di popolo è così cospicuo e costante che
Francesco decide di costruire un romitorio più vasto e una nuova chiesa sufficiente a contenere i fedeli durante le
celebrazioni eucaristiche.
Il testimone 37 del processo cosentino, il nobile paolano Antonio Mendolilla, racconta un ennesimo fatto prodigioso accaduto in
questa circostanza.
Mentre Francesco è intento con i suoi fratelli eremiti e con alcuni operai a completare uno dei muri della nuova costruzione,
si avvicina un religioso vestito dell'abito dei frati minori che gli chiede perchè stesse costruendo una chiesa così
piccola per onorare l'infinita Maestà dell'Altissimo e all'obiezione di Francesco, di non potere costruire
che quanto l'elemosina dei buoni cristiani gli consente, lo esorta ad avere fiducia nella Divina Provvidenza e lo invita a demolire
il costruito e a seguire il progetto che gli traccia. Francesco, sempre umile nell'ascoltare i consigli e fiducioso nell'amore
di Dio, non esita a demolire, pur senza avere di che costruire il nuovo. Dopo alcuni giorni il nobile cosentino Giacomo da Tarsia,
barone di Belmonte e valoroso capitano dell'esercito veneziano nella guerra contro Pisa, si reca in visita al romitorio e
elargisce a Francesco una generosissima offerta sufficiente a coprire le spese della nuova costruzione.
Il testimone che ha narrato i fatti e i numerosi presenti che hanno assistito all'accaduto non esitano a riconoscere nel frate
minore San Francesco d'Assisi. Tesi avvalorata anche dal Papa Leone X nella bolla di
canonizzazione.
Alla costruzione partecipano numerosissimi fedeli di ogni rango, prodigandosi in elargizioni e partecipando alle attività
manuali. Il biografo anonimo ci racconta che non è raro vedere nobildonne che nei loro eleganti vestiti si prodigano con
gioia, gomito a gomito con gli operai più umili, in lavori faticosi. Tutti fanno a gara per partecipare per quanto possono a
quella che ritengono, a giusta ragione, un'opera bene accetta a Dio, nell'intento spesso di espiazione di colpe e
manchevolezze spirituali o per impetrare qualche grazia per intercessione dell'eremita.
Nel 1457 monsignor Pirro Caracciolo, succeduto nel 1452 allo zio Bernardino nella guida della Diocesi di Cosenza, concede a
Francesco, perché possa accogliere il grande afflusso di fedeli che ormai arrivano anche da oltre i confini calabresi,
l'autorizzazione per la costruzione di una terza chiesa, che sarà dedicata a Santa Maria degli Angeli, e partecipa
di persona alla cerimonia della posa della prima pietra.
Il 2 luglio 1555 il monastero e la chiesa saranno ridotti in macerie dal feroce corsaro barbaresco Dragut Rais, che con una potente
flotta attacca Paola e la saccheggia. Il padre Marcello Palmieri, allora reggente della provincia monastica, inizia la ricostruzione, che
sarà proseguita dai suoi successori, con il valido sostegno di Isabella di Toledo, figlia di don Pedro viceré di Napoli e
vedova del duca di Castrovillari Giambattista Spinelli, la quale non esita ad attingere anche ai cospicui beni della figlia minorenne per
le sue generose elargizioni.
Francesco accoglie tutti, nobili potenti e popolani miserevoli, con lo stesso spirito d'amore fraterno, partecipa alle loro sofferenze
e cerca di soccorrere quanti sono in difficoltà facendo ricorso alla carità di buoni cristiani o, quando non vi è
alcuno che possa intervenire, intercedendo presso Dio e ottenendone sempre l'intervento. Esorta tutti all'adesione
all'Amore di Dio, di cui è un esempio vivente. È amorevole con i deboli e i sofferenti, ma è duro e
irremovibile con i potenti che dimenticando l'insegnamento evangelico prevaricando quanti sono soggetti alla loro
autorità. Il nobile cosentino Simone degli Alimena è per lui un valido amico sempre disponibile a soccorrere
quanti gli raccomanda.
È eloquente una sua lettera inviata al nobile degli Alimena per chiedergli un intervento a favore di poveri paolani soggetti
all'arroganza di un funzionario statale addetto alla riscossione dell'odiosissima imposta denominata focatico, che
gravava sui focolari:
"La gratia dello Spirito Santo sia sempre nella vostra benedetta anima santa. Accadde, che un Gentlhuomo Napolitano, Contatore delli fuochi della Provincia, è venuto a Paola, per contare detta terra, et ha cominciato a contare, è persona fastidiosissima senz'alcuna discrettione, e huomo senza charità, e perchè dice l'Apostolo Santo, che dove non è charità non ci è niente, Signor mio, essendo V.S. tutto pieno di santa charità, la pregano, una con questa Università, si degni per amor della charità di Dio, e del Prossimo, venire a Paola, forse col vostro bon dire, e gratioso, e grave aspetto, tal huomo si honesterà a far cose più accostevoli alla raggione. Pregamola molto si degni non manchare alla nostra pia petitione, essendo sua Signoria, tutta caritativa per servitio di Giesù Christo benedetto, che certo non venendo V.S. tal huomo senza raggione e charità saria l'ultima ruina di questa povera Terra, et ancora esso prenderia tale audacia, non avendo repugnanza, che certo saria ruina di tutte le povere altre Terre, del nostro paese. Non dico io, che si occultino, e fraudino li fuochi alla Maestà del Re; perchè saria fraudolenza, ma vorria, che la discrittione accompagnata con la pietà, e la santa charità, fosse nelli Ministri dello Stato Regio, non l'empietà, qual continuamente usano, contra povere persone vidue, pupilli, stroppiati et simili persone miserabili, quali di raggione devon esere absenti di ogni gravezza. Guai a chi regge, e mal regge, guai ai Ministri dei Tiranni et alle tirannie, guai alli Ministri di giustizia che li è ordinato far giustizia e lor fanno il contrario. Guai alli impij che di loro è scritto : "non resurgent impij in iudicio, neque peccatores in Concilio justorum". O felicissimi huomini giusti a voi è aperto il Paradiso, et all'ingiusti l'Inferno." (Epistolario di S. Francesco di Paola citato dal padre Giuseppe Roberti o. m., v. Bibliografia).
Tutte le contrade della Diocesi cosentina cominciano ad inviare delegazioni ufficiali, guidate quasi sempre
dai loro più rappresentativi esponenti delle municipalità, per chiedere a Francesco di istituire comunità dei
suoi frati eremiti nelle loro città. Francesco, certo che questo è il disegno divino e confortato dall'assenso
e dall'appoggio del vescovo della Diocesi, acconsente di buon grado.
La prima comunità dopo Paola è quella di Paterno (1454) sulle serre cosentine, alla quale seguono Spezzano
Grande (1456) alle falde della Sila e Corigliano Calabro (1458) sullo jonio.
A Spezzano Grande altri due giovani, che tanta parte avranno nella crescita dell'Ordine, entrano nella comunità:
Giovanni Cadurio, di nobile e ricca famiglia di Roccabernarda nella provincia di Catanzaro, e Bernardino Otranto, anch'egli
di ricca famiglia di Cropalati nella provincia di Cosenza.
Giovanni Cadurio da ragazzo era affascinato dalla vita religiosa e aveva anche indossato l'abito talare, poi abbandonato
perché soggiogato da una passione sfrenata per una donna. Accompagnando a Spezzano la donna con la quale aveva la
relazione, è costretto a passare davanti al convento. Francesco, che conosce per volere di Dio lo stato di quel giovane,
chiede al portinaio del convento di avvicinarlo, di convincerlo ad entrare e di richiuderlo a chiave in una cella. Dopo un po'
di tempo, quando il giovane smette le sue violente proteste, Francesco entra nella cella e Giovanni gli si prostra ai piedi, pentito
e in lacrime, chiedendo e ottenendo di indossare il saio. Divenuto sacerdote, seguirà Francesco alla corte di Francia e,
alla morte del re Luigi XI, su richiesta di Francesco ritornerà a Spezzano dove
concluderà la sua preziosa opera a favore dell'Ordine e la sua santa vita nel 1524.
In modo analogo Bernardino Otranto da ragazzo aveva manifestato il desiderio di abbracciare la vita consacrata, ma la grande
disponibilità di mezzi personali, attinti alle ricchezze della famiglia, lo avevano spinto alla bella vita fino a intrattenere una
relazione illecita con una donna. Un giorno, in compagnia di questa donna, si trova a curiosare nelle vicinanze del convento e
Francesco, come per il giovane Cadurio, lo invita ad entrare e lo rinchiude a chiave in una cella. Quando Francesco riapre la porta
trova Bernardino piangente e pentito che gli chiede di accoglierlo nella sua comunità. Francesco acconsente, ma i fratelli di
Bernardino, appresa la notizia che il giovane ha vestito il saio, si recano al convento di Paola dove era stato inviato e lo convincono
a ritornare a casa. Meno di un mese dopo, Bernardino si ripresenta a Francesco supplicandolo di riprenderlo. Francesco, senza
dare risposta alla sua richiesta, gli chiede di recarsi alla corte di Napoli per consegnare al re una sua lettera importante e Bernardino
parte subito. Al suo ritorno trova di nuovo i fratelli ad attenderlo per riportarlo a casa. Francesco nel salutarlo lo rassicura dicendogli
che presto sarebbe ritornato per sempre. Così avviene e Bernardino dopo pochi giorni ritorna in convento definitivamente.
Consacrato sacerdote, Francesco lo sceglie per suo confessore personale, lo porta con sé alla corte di Francia e, poco
prima della sua morte, lo nomina primo Vicario dell'Ordine.
Nel 1460 le autorità civili di Crotone si recano a Spezzano per chiedere a Francesco di istituire anche nella loro città
una sua comunità. Francesco invia il padre Paolo Rendacio, il quale ai primi di maggio inizia la costruzione del convento e
della chiesa intitolata a Gesù e Maria. I crotonesi accolgono il padre Rendacio, vero emulo di Francesco, con affetto ed
entusiasmo e contribuiscono con tutto quanto possono all'edificazione del convento.
Si distinse particolarmente nelle elargizioni il nobile spagnolo Francisco de Navarra, della famiglia los Piñeros
e nonno di Pedro Manriquez che sarà Arcivescovo di Saragoza nel 1545, al quale
Francesco scrisse una lettera di gratitudine promettendogli una visita che però non avrà modo di fare:
"Iesus Maria.
Al Nobilissimo Signor di Navarra Fondatore del nostro Convento della Città di Crotone.
Nobilissimo e divotissimo Signore.
Il Padre Paolo di Paterno mi ha dichiarato il gran desiderio, che havete di accrescere il numero de' Servi di Dio, fabbricandoli una
casa nella Città di Crotone; il che mi ha estremamente consolato, mentre che Dio sarà più onorato in
quel luogo, e ci acquisterà una nuova piazza, dove ogni giorno sarà adorato nel santo sacrificio della Messa. Sia
sempre benedetto di avervi suggerito un'impresa tanto generosa, e di haverla tanto presto messa in esecutione. Dio ne sia la
vostra ricompensa; e io ne lo pregherò acciò vediate nelli vostri giorni, quella santa casa fiorire in ogni
santità aspettando il tempo a venirvi a visitare, e rendervi mille attioni di gratie della vostra abondante carità.
Io resto, nobilissimo Signore. Vostro perpetuo et obediente servo.
Il povero Frate Francesco di Paola, minimo delli minimi servi di Giesù Christo benedetto.
Di Spezzano lì 9 maggio 1560".
Nel 1464 il nobile di Milazzo Bernardo Caponi, che si trova a Paola esiliato dalla sua città, incontra
Francesco. Senza averlo conosciuto prima né aver mai sentito la sua storia, Francesco conforta il giovane, stupefatto della
conoscenza che l'eremita ha della sua situazione, dicendogli che presto potrà ritornare in patria perché i suoi
parenti sono riusciti ad ottenergli la grazia. Appena ritornato nella sua città Caponi racconta di Francesco e delle sue doti
straordinarie di taumaturgo.
La Sicilia dell'epoca è sconvolta dallo scisma greco e dalle eresie che si diffondevano da Basilea in tutto l'Occidente
cristiano.
I milazzesi non si lasciano sfuggire l'occasione di avere soccorso dal santo eremita e gli inviano a Paterno, dove allora dimorava,
due nobili magistrati, Angelo Camarda e Giovanni Villani, per chiedergli di recarsi nella loro città. Benché Francesco
fosse oltremodo restio a recarsi fuori dalla sua regione, anche perché non aveva ancora ottenuto il riconoscimento ufficiale
del suo Ordine dalla Santa Sede, accetta l'invito e verso la fine dell'anno si mette in viaggio verso la Sicilia con padre
Paolo Rendacio e fra' Giovanni il semplice.
Durante tutto il lungo viaggio i prodigi operati da Francesco sono innumerevoli e testimoniati ai processi da persone degne di fede,
tuttavia quello ricordato da tutti è senza dubbio l'attraversamento dello stretto di Messina sul mantello.
Giunto sulla spiaggia di Catona, nella provincia di Reggio Calabria a
pochi chilometri da Villa San Giovanni, Francesco si avvicina al
padrone di una barca pronta a salpare per Messina con un carico di legname, tale Pietro Coloso, e gli chiede se può per
carità traghettare lui e i suoi due compagni. Poiché non ha denari per pagare il passaggio per sé e per i suoi
compagni, riceve un netto e sgarbato rifiuto. Francesco, senza scomporsi per la sgarbatezza del Coloso, si allontana un po' dai
suoi compagni, si inginocchia in preghiera, quindi si alza e benedice il mare e steso il mantello sulle acque vi sale e invita i suoi
compagni a seguirlo. Il padre Rendacio intimorito non lo segue, ma fra' Giovanni il semplice non esita un istante. Il barcaiolo e le
numerose persone presenti sulla spiaggia, frastornati dal prodigio che si compie sotto i loro occhi, salgono sulle barche per seguire
Francesco. Il barcaiolo lo supplica di volere accettare il suo invito a salire sulla barca, ma Francesco prosegue imperturbabile nella
sua traversata. Intanto anche dalla riva opposta si accorgono di quanto sta accadendo e si riunisce una gran folla di curiosi al punto
in cui prevedono l'approdo. Francesco, per evitare la curiosità che ha suscitato, prosegue fino ad un approdo un pò
più distante. Il barcaiolo, pentito del suo gesto e sicuro di trovarsi di fronte ad un santo, sbarcato fra la folla, incurante della
curiosità suscitata, corre da Francesco, gli prostra ai piedi e lo supplica di perdonarlo. Francesco lo perdona di cuore e lo
conforta. Pietro Coloso continuerà il suo mestiere di barcaiolo, ma ogni giorno per la tutta la durata della sua vita si
recherà nella chiesa del convento a Milazzo e, prostrato davanti all'immagine di Francesco, piangendo ne implorerà
il perdono.
Nel 1465 iniziano i lavori per edificare il convento e, come è avvenuto altrove, l'aiuto e il sostegno dei milazzesi è
determinante. Innumerevoli sono i prodigi compiuti durante la costruzione e nei quattro anni del suo soggiorno a nella città
siciliana.
Molte municipalità e nobili della Sicilia insistettero perché fondasse altre comunità, ma Francesco non volle
acconsentire, anche perché reputava improcrastinabile il consolidamento spirituale e organizzativo delle comunità
già esistenti.
Nel 1468 rientra a Paterno e nel 1469, su invito della municipalità di Maida nella provincia di Catanzaro, invia il padre
Francesco Majorana a fondarvi una nuova comunità.
Nel 1470 Francesco ritorna a Paola perché la buona e pia nobildonna Lucente, allora signora della città, gli chiede di
poter discutere con lui di affari urgenti.
Era allora Sommo Pontefice Paolo II, succeduto nel 1464 a Pio
II.
In conseguenza delle disposizioni dei Concili Lateranense IV (1215) e Lionense (1245), che
limitavano fortemente il riconoscimento canonico di nuovi ordini religiosi, e per le notizie giunte alla Santa Sede che Francesco aveva
intenzione di inserire nella regola del suo Ordine un quarto voto, quello della Quaresima Perpetua, non conforme allo spirito dell'epoca
e mai praticato da nessuno, il Santo Padre invia a Paola un delegato apostolico, il nobile genovese monsignor Girolamo Adorno, per
indagare e conoscere meglio lo spirito che anima Francesco e le sue comunità.
Monsignor Adorno si reca nel castello di San Lucido, dove soggiorna monisgnor Pirro Caracciolo Arcivescovo di Cosenza, con le
lettere apostoliche del Pontefice che gli conferiscono l'incarico e l'autorità per istruire un'inchiesta. Dopo alcuni giorni di riposo
dal lungo viaggio, durante i quali apprende dalla viva voce del Arcivescovo notizie confortanti su Francesco, accompagnato dal
canonico del Duomo di Cosenza monsignor Carlo Perri (sarà il testimone 57 al processo cosentino) si reca a Paola per
incontrare l'eremita.
Giunto nel romitorio di Paola nelle prime ore del mattino, entra nella chiesa dove si sta celebrando la S. Messa e nota subito un
fraticello, vestito miseramente, inginocchiato in un angolo mentre assiste con umile devozione alla celebrazione. Il comportamento
del frate, che non ha alcun dubbio trattarsi di Francesco, colpisce il delegato. Gli si avvicina per baciargli la mano, ma Francesco,
come testimonierà don Perri, confuso e sorpreso la ritrae, dicendogli : "Per carità, sono io piuttosto,
Monsignore, che devo baciare le vostre mani, consacrate da trent'anni". Monsignor Adorno, stupito che quel fraticello
conoscesse così esattamente gli anni del suo sacerdozio pur non essendo neanche stato avvertito del suo arrivo,
comprende di trovarsi di fronte a un uomo straordinariamente assistito dalla Grazia.
Per parlare con più tranquillità, Francesco lo invita nella sua cella e qui il delegato gli fa presente le perplessità
suscitate dalla sua intenzione di inserire nella regola dell'Ordine il quarto voto della quaresima perenne. Per meglio avvalorare le sue
argomentazioni, dice a Francesco che se lui può sopportare per tutta la vita un obbligo così pesante, perché
rozzo e avvezzo ai sacrifici più intollerabili, non può pretenderlo da altri. Francesco, senza adontarsi, si china sul
braciere, che era nella cella per riscaldarla, e presa una manciata di carboni ardenti gli dice "Sì, è vero, se io
non fossi rustico non potrei fare queste cose". Monsignor Adorno non ha più alcun dubbio, quel fraticello è
assistito dalla Grazia di Dio, gli si inginocchia ai piedi tentando di baciargli le mani e, al suo rifiuto, gli bacia il lembo del saio.
Tornato dall'Arcivescovo Pirro Caracciolo formalizza ufficialmente l'indagine e, nei pochi giorni che ha a disposizione, ascolta un gran
numero di testimoni spontanei di fatti prodigiosi verificatisi a Paola e nei paesi dell'immediato circondario.
Tornato a Roma il delegato fa un resoconto dettagliato al Pontefice, concludendo che, benché prima di partire fosse scettico
sui prodigi attribuiti a quel fraticello e sulla sua santità di vita, quanto ha potuto constatare di persona è di gran lunga
superiore ad ogni immaginazione.
Purtroppo, Paolo II muore improvvisamente per apoplessia il 26 luglio 1471, prima di avere
il tempo di decidere checchessia in favore degli Eremiti di fra' Francesco.
Il 9 agosto 1471 Francesco della Rovere, Superiore Generale dei frati minori conventuali e Cardinale di San Pietro in Vincoli, viene
eletto Papa e assume il nome di Sisto IV.
Il 30 novembre 1471, dal suo castello di san Lucido, l'Arcivescovo di Cosenza Pirro Caracciolo emana una sua Costituzione,
Decet nos ex officio, con la quale istituisce ufficialmente la Costituzione dei fratelli Eremiti di fra' Francesco
di Paola, dando alla congregazione i benefici e i privilegi necessari e, soprattutto, dichiarandola esente dalla giurisdizione ordinaria sua
e dei suoi successori ed assoggettandola da sùbito e in perpetuo direttamente alla Sede Apostolica e all'autorità del
Papa.
Il numero dei seguaci si accresce di giorno in giorno e molti chiedono di far parte della comunità eremitica, la fama di
Francesco e dei suoi prodigi è ormai giunta in ogni parte d'Italia.
Francesco ha a cuore il riconoscimento ufficiale da parte della Gerarchia al fine di preservare tutte quelle comunità di frati,
così pii e operosi nella carità, con una buona regola e non soltanto con l'esempio della sua vita e il suo insegnamento.
Appresa l'elezione del Papa Sisto IV, Francesco invia a Roma il padre Baldassarre Spino,
allora suo confessore, con la Costituzione dell'Arcivescovo di Cosenza e alcuni Statuti, da lui preparati per definire una regola di vita
comune nel rispetto dei tre voti usuali di castità obbedienza e povertà e con l'esortazione alla pratica di penitenza
della quaresima perenne, per impetrare al Santo Padre la convalida del riconoscimento del nuovo Ordine.
Il Santo Padre, ascoltato il parere dei Cardinali, il 19 giugno 1973 invia al Vescovo di San Marco Argentano, monsignor Goffredo di
Castro di Tropea, delega speciale a procedere, sotto la sua suprema autorità e per suo conto, a nuova inchiesta e, se i fatti
conosciuti fossero confermati, a ratificare i privilegi e le prerogative concesse nella Costituzione dell'Arcivescovo di Cosenza. L'esito
dell'inchiesta non poteva che essere favorevole e il Vescovo Goffredo di Castro, sul finire del 1473, conferma in forza della delega
all'autorità suprema del Papa la Costituzione dell'Arcivescovo Pirro Caracciolo.
Il re di Napoli Ferrante d'Aragona, a nome del suo primogenito Alfonso Duca di Calabria, conosciuta la delibera pontificia concede
alcuni importanti privilegi e la sua personale protezione sul convento e sul convento e sulla chiesa di Paola, di cui ben presto
però non terrà alcun conto.
L'impegno di Francesco e dei suoi frati eremiti, ormai diffusi in gran parte del regno, è rivolto anche alle necessità
di giustizia sociale delle popolazioni vessate e afflitte da continue contese tra i potenti del regno.
Francesco ama profondamente la sua patria e non si risparmia, per quanto può, nelle opere e nell'esortazione per ottenere
giustizia e solidarietà a favore dei più miseri e a vantaggio della vita civile. Questo lo rende inviso alla corte, dove la
briga per la ricerca del potere personale e la sfrenatezza nell'immoralità dei comportamenti sono sovrani.
Nel 1479, il sultano Mohammed II detto Büyük ("il Grande") sconfigge i Veneziani, che sono costretti a firmare ad
Istanbul un trattato di pace molto simile ad una resa incondizionata, e con una enorme flotta pone sotto assedio Rodi, allora difesa
dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. L'eroismo di Pietro d'Aubusson e dei suoi Cavalieri costringono il sultano, nell'estate
del 1480, a togliere l'assedio e a ritirarsi. Ma gli ottomani, inorgogliti dall'umiliante sconfitta inflitta ai veneziani, già preparano
l'invasione dell'occidente cristiano.
Francesco, dotato del dono della premonizione, non cessa di invitare tutti alla preghiera perché la Misericordia di Dio risparmi
al popolo cristiano l'imminente catastrofe dell'invasione ottomana della patria. Un sacerdote del Duomo di Nicastro don Giacomo
Guerrieri, testimone 96 al processo calabrese beneficato con un prodigio da Francesco, in visita a Paterno testimonia che al
momento della sua partenza gli consegna tre mele, una per lui, una per la marchesa di Gerace e una per il Vescovo della diocesi,
chiedendo di dire al Vescovo di far recitare ad ogni S. Messa la Colletta contro i Turchi "...perché mai, come in questo
momento, essi sono stati così vicini alle nostre terre...", anche se, come riferisce il testimone, mai nessuno fino a quel
momento aveva mai parlato di minaccia d'invasione da parte dei Turchi.
Francesco non esita ad inviare al re Ferrante, che ha impegnato nella guerra di Toscana quasi tutto il suo esercito, suppliche continue
ed insistenti perché voglia predisporre difese idonee lungo i confini del regno. Il testimone 14 al processo cosentino riferisce
che, tre mesi prima dell'invasione di Otranto, Francesco, da Paterno, rivolgendosi nella direzione della città pugliese, ai suoi
confratelli presenti dice in lacrime di vedere il suolo della città coperto da tanto sangue cristiano innocente.
Il 28 luglio del 1480, il pascià Achmet muove dal porto di Valona contro Otranto con novanta navi e diciottomila uomini.
Dopo quindici giorni di battaglie cruente, la resistenza dei pochi e male armati difensori di Otranto è vinta. L'11 agosto
Achmet pascià entra in città, fa trucidare dodicimila uomini, dei ventiduemila abitanti, e altri li cattura per farne schiavi.
Fra i superstiti ne sceglie ottocento di età superiore ai quindici anni e, assistito da un ulema, forse il sacerdote calabrese
apostata Giovanni, tenta di indurli a conversione forzata all'islam e, al rifiuto di ognuno di loro incitati e confortati da ferme parole di
fedeltà a Cristo pronunciate dall'umile ma pio e coraggioso sarto Antonio Primaldo, li fa decapitare tutti, uno a uno, e l'eccidio
si protrae per tutto il giorno, dall'alba al tramonto.
Ferrante, rendendosi finalmente conto del pericolo che corre il suo regno, stipula la pace con la Toscana e con l'aiuto e il sostegno
del Papa Sisto IV invia il figlio Alfonso Duca di Calabria con un esercito per contrastare
l'invasione. Intanto Francesco, chiuso nella sua cella, moltiplica le sue preghiere e le sue penitenze perché la Misericordia di
Dio soccorra la sua patria. Il Conte d'Arena Gian Nicola Conclubet, in viaggio verso il fronte, passando da Paterno fa visita a
Francesco, il quale lo rassicura sulla certa vittoria contro i nemici della fede cristiana e sul loro ritorno a casa incolumi e li conforta
donando a ciascuno una piccola candela benedetta. Tutti tornano a casa sani e salvi, come riferisce il figlio del Conte Gianfrancesco
d'Arena in una lettera inviata al Papa Leone X con la supplica per la canonizzazione di
Francesco, ad eccezione di un soldato che aveva rifiutato l'offerta della candela, reputandola superstizione.
Per assistere spiritualmente quei bravi soldati che si recano a difendere il suolo patrio con tanto coraggio e a rischio della loro vita,
Francesco li fa accompagnare al fronte dal padre Giovanni Genovesi, che fu testimone di tanti fatti prodigiosi.
Il 3 maggio 1481 Mohammed II "Büyük" muore e i suoi due figli, Bayazet II e
Zizim, si affrontano in una sanguinosa guerra civile per appropriarsi del regno e Achmet pascià viene richiamato in patria con
le sue truppe. Il 9 settembre Achmet firma la resa della città ed abbandona Otranto.
La fama di Francesco ha da tempo varcato i confini del regno di Napoli. In ogni ambiente quotidianamente si parla di lui e dei suoi
prodigi, anche alla corte del re Ferrante. In questa corte non sono molti i suoi estimatori. Lo considerano un impostore ed un
arrogante, che continua ad infastidire il re e i cortigiani con continue lettere e petizioni in favore dei più deboli, della giustizia
sociale e della moralità ormai completamente assente alla corte di Napoli. Il re Ferrante impersona tutto il degrado morale
dei suoi cortigiani, ma ancor più l'erede al trono Alfonso Duca di Calabria, che aggiunge alle dissolutezze del padre l'irruenza
della sua giovane età.
L'ennesimo intervento di Francesco in favore della sua patria contro l'invasione ottomana è mal sopportato dai cortigiani, i
quali spingono il re a prendere provvedimenti contro di lui. Per raggiungere il loro scopo suggeriscono al re di addebitare a Francesco
di avere edificato senza sua autorizzazione conventi, a Paola e in altre città, e di avere istigato il popolo, in forza del suo
ascendente religioso, a non pagare i tributi. Il re invia un ufficiale governativo che era di stanza a Cosenza per contestare a
Francesco le accuse e minacciarlo di procedere a demolizione dei conventi non autorizzati.
Francesco riceve amorevolmente l'ufficiale e alle sue contestazioni ribatte che le comunità sono state istituite con
l'autorizzazione del Santo Padre e dei Vescovi di Cosenza e di Rossano, che non ha inteso mancare di rispetto al re e non ha avuto
altro scopo se non quello della maggiore Gloria di Dio e del bene dei fratelli. Chiede poi all'ufficiale di farsi portavoce presso il re di
concedergli, per la benevolenza che aveva manifestato in passato verso il convento di Paola, i medesimi privilegi che
l'Autorità ecclesiastica gli aveva riconosciuto.
Quando il re Ferrante riceve la risposta di Francesco lo accusa di aperta ribellione, ingiunge al suo secondogenito Cardinale Giovanni
d'Aragona, che era stato nominato Cardinale all'età di diciott'anni, di confiscare la chiesetta di Maria Santissima di Pozzano,
offerta nel 1477 dal popolo di Castellammare di Stabia a Francesco, e di espellere i frati da Pozzano. Il Cardinale Giovanni espelle i
frati e confisca la chiesa. Sul suolo farà poi costruire una sua villa privata, ma non riuscirà ad usarla perché
morirà a soli venticinque anni. Invia, poi, a Paterno, dove Francesco dimora, un capitano di galea con un drappello di soldati
per catturarlo e condurlo in ceppi a Napoli.
Appena la notizia si diffonde, i frati e la popolazione, allarmati dall'avvicinarsi dei soldati, scongiurano Francesco di porsi in salvo con
la fuga. Francesco, come ci racconta il biografo anonimo suo contemporaneo, rifiuta di fuggire e conforta tutti dicendo che se quello
è il volere di Dio occorre accettarlo ed adorarlo, ma se questo non è nessuno gli potrà mai fare del male.
I soldati arrivano al convento e si mettono alla ricerca di Francesco, che intanto si è recato nella chiesa e in ginocchio ai piedi
dell'altare si pone in contemplazione del Santissimo Sacramento. Più volte i soldati entrano nella chiesa alla sua ricerca, ma
non riescono a vederlo pur passandogli accanto. Il capitano impreca e minaccia i frati terrorizzati delle più feroci rappresaglie,
mentre i soldati frugano ovunque. Un operaio, di cui si conosce soltanto il nome Antonio, intimorito per le minacce si rivolge al
capitano e gli esprime la meraviglia che non lo avesse visto quando gli è passato accanto nella chiesa. Il capitano si reca di
nuovo nella chiesa e vede Francesco assorto in meditazione ai piedi dell'altare. Francesco si alza e gli va incontro con fare
amorevole. Il capitano commosso gli si inginocchia ai piedi per chiedergli perdono e Francesco lo conforta, rassicurandolo che non
è in niente responsabile ma soltanto esecutore di un ordine, e gli chiede di riferire al re che si preoccupi piuttosto di
correggere la sua condotta morale e di occuparsi della giustizia del suo governo se vuole sfuggire, lui e la sua dinastia, ai castighi di
Dio. Poi gli porge alcuni oggetti benedetti, coroncine del rosario e piccole candele, da recare in omaggio al re, alla regina e ai principi.
Invita, quindi, i soldati nel refettorio per farli rifocillare e li serve personalmente.
Quando sente ciò è accaduto dal suo capitano, il re cambia parere, annulla l'ordine di demolizione ed autorizza
Francesco ad erigere conventi ed istituti ovunque voglia nel regno.
Come Francesco aveva predetto, la dinastia di Ferrante si estinse completamente, quando Ferdinando
II, primogenito di Alfonso Duca di Calabria, il 5 ottobre 1496 morì, dopo meno di
due anni di regno, senza lasciare eredi.
Sul trono di Francia regnava dal 1461 il re Luigi XI, figlio di Carlo
VII, perfido e perverso, sospettoso verso tutti, incapace di amare chicchessia. Nel marzo
del 1480, mentre sedeva a tavola nel villaggio di Forges, nelle vicinanze di Chinon, viene colpito da apoplessia e riesce a riprendersi
soltanto dopo un lungo periodo di cure. Diventa, allora, ancora più sospettoso ed è terrorizzato dalla morte. Comincia a
fare incetta di sante reliquie, nella speranza di ottenere la grazia di completa guarigione, e si circonda di ogni sorta di religiosi santi
o presunti tali.
In quell'anno era in Francia un mercante napoletano, Matteo Coppola, che aveva conosciuto Francesco e per sua intercessione
ottenuto la grazia di avere figli nonostante la moglie fosse sterile. Un giorno il Coppola riferisce a Jean
Moreau, scudiero del re Luigi e testimone 41 del processo turonense, i prodigiosi miracoli ottenuti da Francesco.
Moreau riferisce subito al re della conversazione e il re convoca immediatamente Coppola, dal quale
ascolta il racconto dei prodigi operati da Francesco. Convinto la santità dell'eremita possa fare il prodigio della sua
completa guarigione, invia il suo maggiordomo Guynot de Bussiàres con alcuni gentiluomini di
corte e il Coppola stesso a Paterno per recare a Francesco una lettera con la quale lo convoca alla corte di Francia.
Molte testimonianze, fra le quali anche quella dell'anonimo biografo contemporaneo che dice di essere testimone oculare, affermano
che Francesco in più occasioni aveva predetto del suo viaggio che la Volontà di Dio lo avrebbe portato presso
popoli lontani dall'idioma sconosciuto. Tuttavia, rifiuta l'invito del re Luigi leggendo nella lettera la sola volontà del re e non
la Volontà di Dio. Informato del rifiuto, il re chiede al re di Napoli Ferrante di intercedere per lui. Ferrante, non volendo
scontentare la casa di Francia che era pretendente al trono di Napoli e avrebbe potuto recargli seri fastidi, invia a Francesco
Guynot de Bussières con una sua lettera con la quale ingiunge, per volere sovrano, di
accontentare il re di Francia. Ancora una volta, non scorgendo che la volontà interessata del sovrano, Francesco rifiuta.
Informato del nuovo rifiuto e su consiglio del re Ferrante, il re Luigi tramite il suo ambasciatore presso la Santa Sede
Jean de Beaudricourt chiede ed ottiene l'intervento del Papa Sisto
IV. Francesco si inchina di fronte al volere di Dio, chiaramente espresso tramite il Vicario di
Cristo, e acconsente a raggiungere la corte di Francia. La legazione guidata dal Bussières parte
per Napoli con una nave e Francesco promette di seguirli via terra, dopo avere sistemato gli affari più urgenti delle sue
istituzioni.
Il commiato dai suoi fraticelli e dall'unica sorella Brigida, i suoi genitori erano già morti da alcuni anni, fu molto doloroso per
Francesco. Alla sorella che chiede un suo ricordo, non possedendo alcunché, lascia un molare che egli stesso si cava senza
alcuno sforzo né dolore con le dita. Questa reliquia è conservata nel convento di Paola. Si narra che un giorno una
donna di poca moralità volle baciarlo per devozione e all'istante il dente si spezzò. La donna si pentì e da
allora condusse vita morigerata e santa.
Il 2 febbraio del 1483, a 67 anni, Francesco si mette in viaggio, in compagnia di padre Bernardino Otranto, di padre Giovanni Cadurio
suo confessore e di fra' Nicola d'Alessio figlio della sorella, per raggiungere la legazione reale a Napoli. Quando giunge sulle cime del
Pollino Francesco si volge a guardare per l'ultima volta la sua amatissima Calabria e, commosso per quel commiato che lui sa essere
definitivo, la benedice. Sul masso sul quale è montato restano impresse le orme dei suoi piedi. Questa reliquia fu divisa in
due parti e custodite nei conventi di Paterno, dopo essere rimasta per un certo tempo nel convento romano di S. Francesco di Paola
ai Monti, e di Morano Calabro.
Lungo tutto il tragitto fino a Napoli Francesco compie innumerevoli prodigi e la notizia del suo transito si sparge in un baleno. Tutti
vorrebbero trattenerlo o almeno ospitarlo e tanti chiedono il suo aiuto e il suo conforto. Il popolo che incontra riconosce in lui l'ultimo
baluardo di difesa per la salvezza spirituale e per la dignità del loro vivere civile.
Giunge a Napoli il 27 febbraio, lo stesso giorno che aveva visto quarant'anni prima l'ingresso trionfale di Alfonso d'Aragona, ed entra
in città per la porta Capuana. Una folla immensa, che invade anche tutte le strade limitrofe, aspetta il frate eremita calabrese
a stento trattenuta dai soldati. Il re, appena avvistato il frate, scende dalla sua carrozza con i tre figli Alfonso duca di Calabria,
Federico principe di Taranto e Francesco duca di Sant'Angelo e, circondato dai dignitari del regno e da numerosi nobili e cavalieri, gli
si fa incontro per riceverlo. Si inginocchia al suo cospetto, lui che poco tempo prima lo avrebbe voluto in ceppi, per riceverne la
benedizione e lo abbraccia. I dignitari e i nobili gli fanno ala per scortarlo a piedi alla reggia di Castel Nuovo (il Maschio Angioino,
dove nel 1294 Pietro da Morrone, Papa Celestino V, fece "il gran rifiuto"), circondato da
una folla acclamante che i soldati non riescono più a contenere. Un testimone oculare racconta che è tanta la
ressa di popolo che avrebbe voluto toccare o baciare il lembo del saio di Francesco, che ne sarebbe rimasto schiacciato se il principe
Federico non lo avesse fatto circondare e difendere dalla sua guardia. In tutto questo trambusto e tripudio di acclamazione,
Francesco resta impassibile e quasi assente, come non si trattasse della sua persona, rivestito della sua invincibile umiltà.
Giunto nel cortile interno di Castel Nuovo gli si fanno incontro la regina Isabella con l'Infanta e le dame di corte, che si inginocchiano
al suo cospetto per baciargli il lembo del saio e riceverne la benedizione.
Il re Ferrante ospita Francesco e i suoi due compagni in un alloggio preparato vicino agli appartamenti reali. Il re fa praticare nella
porta dell'alloggio un leggera fessura per controllare, non visto, i comportamenti del frate. Questo ci varrà una immagine
fedele delle sue sembianze, perchè il re incarica un pittore di corte di ritrarlo a sua insaputa osservandolo attraverso la
fessura della porta. Questo ritratto è custodito nella chiesa dell'Annunziata di Montalto Uffugo in provincia di Cosenza.
Durante la sua permanenza a corte Francesco non cessa di perorare la causa del ravvedimento del suo re, richiamandolo ai doveri
primi di un buon principe cristiano, in questo assistito dalla Misericordia di Dio che opera attraverso lui tanti prodigi.
Il re diffidente, volendo scoprire la vera natura del frate nonostante gli atteggiamenti ipocriti di riverenza, continua ad osservarlo a
sua insaputa dalla fessura della porta nei momenti più impensati. Una sera, quando tutti dormono, il re va a spiare attraverso
la fessura e vede Francesco in estasi al cospetto di Dio circondato da una luce sfolgorante che aveva rischiarato a giorno tutta la
stanza. Non ancora convinto della sua santità cerca occasione per tentarlo. Più volte invitato alla sua mensa
Francesco rifiuta. Un giorno il re ordina al suo paggio, don Girolamo Cavaniglia, di portare un vassoio di pesce fritto a Francesco
nella sua stanza. Il testimone 98 del processo calabrese, padre Ambrogio Coppola cappellano di corte, racconta che Francesco
fatto il segno della croce sui pesci li fa ritornare vivi e rivolto al paggio gli chiede di riferire al re che come lui ha ridato la vita ai pesci
il re deve ridare la libertà a quegli innocenti infelici che tiene rinchiusi nelle sue prigioni. Il re è visibilmente scosso dal
racconto dei testimoni, ma è ancora diffidente e prova un'altra strategia per saggiare la vera natura dell'eremita.
Un giorno il re Ferrante chiede e Francesco di istituire a Napoli una sua comunità e, per aiutarlo nella costruzione del
convento, gli fa consegnare da suoi familiari un vassoio ricolmo di monete d'oro. Francesco accetta l'invito di fondare una
comunità a Napoli, ma rifiuta decisamente l'offerta del denaro. Il re non riesce a comprendere il suo rifiuto e manifesta a
Francesco il suo stupito disappunto. Francesco presa una moneta dal vassoio la spezza e mostra al re il sangue che ne sgorga,
quindi gli dice che quel denaro non è suo, ma il sangue versato dai suoi sudditi a causa delle troppe tasse ingiuste, e lo
invita con decisione, ricordandogli che anche per i re esiste l'inferno, a rivedere la sua condotta e a dedicarsi con lo spirito dei principi
cristiani a migliorare il governo del suo regno, minacciandolo di vedere estinta in breve tempo la sua stirpe se questo non
sarà fatto. Ferrante, benché orgoglioso e superbo, non osa ribattere e, profondamente turbato, promette a
Francesco di rivedere la sua condotta e gli chiede di intercedere per lui presso il Signore. Non manterrà le sue promesse e
la sua dinastia si estinguerà, Francesco vivente.
Dopo due settimane di soggiorno, la legazione reale, con Francesco e suoi compagni e scortata dal principe di Taranto Federico e
dai suoi cavalieri, parte su una nave alla volta di Ostia da dove proseguono per Roma. Lì è accolta dall'ambasciatore
di re Luigi, maresciallo Jean de Beaudricourt, che li ospita nel suo palazzo. Anche a Roma si ripete
l'accorrere di numerosa folla, di ogni ceto sociale, che vogliono vedere e toccare il frate.
Il giorno successivo il Papa Sisto IV riceve Francesco e la sua scorta in una udienza solenne.
In presenza del Sommo Pontefice, seduto sul suo trono circondato dai prelati e dai nobili, Francesco si inginocchia, gli bacia
devotamente il piede e gli rinnova i voti di obbedienza, povertà e castità, affida la sua comunità
all'Autorità del Papa e chiede la benedizione apostolica per se e per i suoi confratelli. Il Santo Padre lo invita ad alzarsi e,
dopo averlo abbracciato e baciato, lo invita a sedersi accanto a lui, intrattenendosi in colloquio fraterno.
Il Santo Padre riceve più volte Francesco, il quale chiede con insistenza che gli conceda il quarto voto della regola, la
quaresima perenne. Al suo ennesimo rifiuto, indicando il Cardinale Giuliano della Rovere, nipote del Papa presente all'udienza, gli
dice che lui gli concederà quello che ora il Santo Padre non ritiene opportuno concedergli. Giuliano della Rovere sarà
Papa Giulio II e, nel 1505 dopo due anni di pontificato, concederà a Francesco il
quarto voto.
Il Papa gli comunica la sua decisione di consacrarlo sacerdote, ma Francesco sconvolto dall'idea perchè si reputa indegno di
così importante ministero, supplica il Santo Padre di avere riguardo per la sua ignoranza e indegnità e di lasciarlo
umile fraticello, minimo dei minimi servi di Gesù. Sisto IV si commuove a tanta
umiltà e desiste dall'idea, gli dà però la facoltà di benedire oggetti di pietà, che Francesco
userà frequentemente per benedire coroncine del S. Rosario e diffonderne la pratica, e di concedere indulgenze.
Durante il suo soggiorno a Roma incontra Lorenzo de' Medici e suo figlio Giovanni di appena sette anni. Lorenzo indicando
Francesco chiede al bambino di baciare "la mano del santo" e Francesco ribatte, come racconta il Cardinale San
Roberto Bellarmino, che lui sarà santo quando Giovanni sarà papa. Giovanni de' Medici sarà eletto Papa il
2 marzo 1513 con il nome di Leone X, lo stesso anno proclamerà beato Francesco
e dopo sei anni, il 1 maggio 1519, lo eleverà all'onore degli altari.
Dopo cinque o sei giorni di soggiorno a Roma, con la benedizione di Papa Sisto IV, la
comitiva riparte con una nave da Ostia alla volta della Francia. Arriva nel porto di Marsiglia, ma, a causa di una epidemia di
pestilenza che infuria su tutto il litorale, la nave non può entrare nel porto. Si dirige allora verso la baia di
Bormes al Capo del Colombo. Prima di scendere a terra Francesco chiede al padre Bernardino Otranto di
confessarlo, per non portare i suoi peccati (!) in quella terra e non attirare per sua colpa i castighi di Dio su quella brava gente.
Benedice e prende commiato dal principe di Taranto Federico e dai cavalieri napoletani, che lo avevano amorevolmente scortato fino
in Francia, e scende a terra.
Anche a Bormes vi è la peste e i soldati di guardia alle porte della città fermano la
comitiva, ligi alla consegna di non lasciare entrare nessuno. Francesco li rassicura dicendo che non vi è nulla da temere
perché Dio li accompagna e quei bravi guardiani si convincono a lasciarli entrare in città.
Appena entrato a Bormes il suo primo desiderio è di recarsi in chiesa, per ringraziare il Signore
della felice conclusione del viaggio, e vi trova alcuni operai intenti a riparare la chiesa che si affannano inutilmente a sollevare una
grossa trave. Francesco si avvicina alla trave la benedice e gli operai riescono facilmente a sollevarla e a metterla al suo posto. La
notizia si diffonde rapidamente nella città e una gran folla va in chiesa per impetrare da quel frate l'intercessione per ottenere
la liberazione dalla peste. Francesco sempre partecipe delle sofferenze dei fratelli si reca al lazzaretto e, commosso da tanto
dolore, benedice gli ammalati risanandoli all'istante. La peste svanisce dalla città. Bormes rimase
indenne da ogni contagio fino a nostri giorni. Nonostante a più riprese tutta le regione fosse più volte colpita da
epidemie, nessuno abitanti di Bormes o di quanti si rifugiarono nelle sue mura fu mai colpito da contagio.
Anche a Fréjus infuria la peste e Francesco vi si reca per portare conforto a quella infelice
popolazione, ma al suo arrivo trova la città quasi deserta. Dopo aver appreso da una donna che quasi la metà
degli abitanti è già morta per la peste, molti sono ammalati e alcuni sono fuggiti per scampare al contagio, rassicura
la donna dicendole che è venuto proprio per soccorrerli. La donna corre a dare la notizia, i suoi concittadini le credono e
tutti corrono da Francesco, al palazzo del capitolo dove era ospite, e ne ottengono immediata guarigione. Quanti erano scappati
ritornano nella città ormai risanata dalla peste.
Nel 1490 la popolazione di Fréjus, per gratitudine, fa costruire una chiesa dedicata alla Madonna
della Pietà e un convento per ospitare una comunità dei frati eremiti. Dopo la canonizzazione di Francesco lo
elegge suo Patrono. Ogni anno, la terza domenica dopo Pasqua, si celebra la festa del Patrono e, per ricordare l'accaduto, durante
i festeggiamenti viene rappresentato l'incontro del Santo con la donna.
Jean Moreau, intanto, precede la comitiva per dare l'annuncio al re dell'arrivo in Francia di Francesco e il
re ne è così felice che, come afferma il testimone 41 del processo turonense, non sapeva più se era in terra
o in cielo e promette di dare al Moreau qualunque cosa gli avesse chiesto. Luigi, ansioso di avere con se
Francesco, rinnova immediatamente l'ordine, che aveva inviato tramite il suo maestro di casa
Rigault Doreille, alle autorità e ai cittadini di Lione di preparare una degna accoglienza al sant'uomo
e di predisporre una carrozza con lettiga per rendere più agevole la parte terminale del viaggio.
Francesco giunge a Lione il mercoledì 24 aprile 1483, dove si ferma poco più di una giornata in una locanda
chiamata ostel du Griffon, e la popolazione, per avere appreso dei prodigi operati in terra francese
più che per l'ordine dato dal re, lo accoglie con le medesime entusiastiche manifestazioni già verificatesi ovunque
egli sia transitato.
Ai primi di maggio Francesco giunge alla fine del suo lungo viaggio. Ad Amboise, dove lo ha inviato il re
Luigi, lo attende il Delfino dodicenne Carlo, accompagnato da familiari e dignitari civili e religiosi e da una gran folla. Rispettando le
disposizioni del padre, appena scorge Francesco gli va incontro, circondato dai familiari e dai dignitari, e in ginocchio chiede la sua
benedizione. Tutta la popolazione di Tours accorre festante a ricevere Francesco, ormai a conoscenza
della santità del frate e ansiosa di vederlo e poterne toccare almeno l'abito.
Appena Luigi è informato del suo avvicinarsi al castello di Plessis-du-Parc dove risiede, indossa
il mantello reale e con tutti i dignitari di corte va a riceverlo nel vasto piazzale, dove sono schierati per rendere onore tutto il clero
regolare e secolare di Tours, i nobili e i cavalieri del regno.
Luigi XI di Francia, il re più potente d'Europa, si prostra davanti a Francesco, ne chiede
la benedizione e, come ci riferisce lo storico Philippe de Commynes testimone oculare, gli chiede di
pregare per lui Dio che gli conceda vita più lunga. Francesco, che conosceva il volere di Dio sull'imminente morte di
quell'uomo, gli risponde con saggezza senza spaventarlo.
Il re si pone al suo fianco e, circondato dai dignitari della sua corte, lo accompagna nell'alloggio che ha fatto preparare per il frate e i
suoi compagni vicino alla cappella di S. Matteo, all'interno del recinto del castello, e dà incarico a
Guynot de Bussières e a Pierre Briçonnet di occuparsi di ogni necessità della piccola
comunità e ad Ambrogio Rambault di fare da interprete.
Ogni giorno il re fa visita al bonhomme, come lui e i suoi nobili chiamano ormai Francesco, si inginocchia
per chiedere la benedizione e rinnova la supplica di avere prolungata la vita. Ma riceve sempre la medesima risposta: che la vita di
ogni uomo è nelle mani di Dio e che è necessario mettere ordine nella propria condotta per essere sempre pronto.
Luigi comincia a diventare diffidente verso l'eremita e incarica Pierre Briçonnet ed altri di
controllarlo giorno e notte per scoprire qualche suo comportamento che confermi i suoi sospetti. Ma, benché lo osservino
di continuo, giorno e notte, non possono non riferire al re di trovarlo sempre in continuo atteggiamento di preghiera e
meditazione. Il re ne resta confortato, ma, spinto anche dai cortigiani invidiosi delle attenzioni che rivolge al frate, cerca di tentarlo
con la golosità, inviandogli canestri di pesce perché ne mangino lui e i suoi frati, o con la cupidigia, offrendogli
oggetti preziosi di ogni sorta, anche una statuetta della Santa Vergine in oro massiccio che Francesco rifiuta dicendo di preferire
un'immagine di carta perché non è l'oggetto che egli venera ma ciò che esso rappresenta, ottenendone
sempre un cortese rifiuto.
Un giorno, istigato dal suo medico Jacques Coittier, geloso della stima che godeva Francesco presso il
re, gli fa visita nella sua cella e, quando sono soli, gli offre una borsa di monete d'oro chiedendogli di accettarle per sostenere le
spese di costruzione di convento in Francia. Francesco rifiuta e invita il re a restituire quel denaro tolto con ingiuste tasse ai suoi
sudditi. Luigi si ritira confuso, senza più insistere, ormai l'umile fraticello calabrese ne ha conquistato l'affetto e la fiducia.
Assistito amorevolmente da Francesco, Luigi comincia gradatamente a perdere il terrore della sua morte e, ascoltando i suoi
consigli, comincia a mettere ordine nei suoi affari.
Risolve ogni controversia con la Santa Sede : restituisce i territori di Valentinois e Die, appoggia la bolla
di Interdetto verso la Signoria di Venezia, che teneva in assedio Ferrara, facendola pubblicare e licenzia l'ambasciatore veneto,
bloccando col suo veto la richiesta di Venezia di convocare un concilio contro Sisto IV.
Risolve i dissidi con i vicini che avevano funestato la vita del suo regno. Sottoscrive tre trattati di pace : a
Etapes con Arrigo VII d'Inghilterra, per un indennizzo di 75.000
scudi d'oro, a Senlis con Massimiliano I d'Austria, per la
restituzione della Franche-Contée e del paese di Châlons, a Narbonne con Ferdinando
V il Cattolico, per la restituzione delle contee di Roussillon e di
Cerdagna.
Rimette per quanto è possibile ordine nel governo del suo regno, ripristina la giustizia fino allora vilipesa, mostra maggiore
disposizione al perdono e rispetto per i subordinati.
Ha preso l'abitudine a salutare chiunque incontri con le parole di Francesco, Ave Maria, e tutti a corte lo imitano. Il mutamento
è così profondo da lasciare interdetti quanti lo incontrano.
Su consiglio di Francesco, sapendo che la fine è ormai vicinissima, convoca al castello di
Plessis-du Parc il Delfino Carlo per comunicargli le sue ultime volontà. Fra l'altro, obbliga Carlo a
ridurre sensibilmente, quando ne avrà il potere, le imposizioni di tasse e gabelle, che lui era arrivato a quadruplicare, e fa
iscrivere questa decisione al parlamento di Bourgogne, da lui recentemente istituito, e alla camera dei
conti di Parigi. Nomina Carlo re e gli fa consegnare dal cancelliere i sigilli reali. Raccomanda a Francesco i suoi figli, perché li
assista con la preghiera e il consiglio.
Il lunedì 25 agosto un'improvvisa crisi aggrava le condizioni del re Luigi, che perde la parola, e a fatica riesce a riprendersi. Il
medico Jacques Coittier, per ripicca contro il re che aveva in tanta stima il frate, gli comunica brutalmente
che non sarebbe vissuto fino al giorno dopo. Appena Francesco ne viene a conoscenza fa sapere al re che vivrà fino al
sabato, con profonda consolazione del re che, devotissimo della Santa Vergine, l'aveva sempre implorata che gli concedesse la
grazia di farlo morire nel giorno a Lei dedicato.
Il sabato 30 agosto, nel pieno possesso di tutta la sua lucidità mentale, dopo essersi confessato ed avere ricevuto i
sacramenti, cristianamente rassegnato, invocando la Santa Vergine Maria "Nostra Signora d'Embrun,
mia buona Madre, aiutatemi", rende l'anima a Dio da buon cristiano, come certamente non aveva vissuto. Francesco non
partecipa ai funerali solenni, ma si ritira nella sua cella per alcuni giorni in preghiera e penitenza per intercedere per l'anima del
defunto sovrano.
Alla sua morte Luigi lascia un erede al trono, Carlo, di indole buona ma grandemente inesperto e incapace di affrontare
difficoltà superiori alle sue forze. Luigi, che ha a cuore le sorti dello stato, lasciata in disparte la regina, Carlotta di Savoia a
suo giudizio incapace di ben governare il regno secondo i suoi progetti, affida la reggenza alla sua figlia primogenita, Anna sposa
di Pierre de Buorbon principe di Beaujeu, che gli rassomiglia in tutto anche
nella determinazione negli affari di governo del regno.
Questa decisione del sovrano è ben accetta da tutti, l'unico ad opporsi è il duca di Orléans. Anna, alla
morte del padre, istituisce subito un consiglio della corona formato da dieci membri e al quale dovevano assistere
obbligatoriamente i principi di sangue.
La reggente Anna non tarda a fare piazza pulita di quella corte dei miracoli che il defunto sovrano aveva creato intorno a sé,
soprattutto quando infermo temeva per la sua vita, confiscando i loro beni e rimuovendoli dalle cariche abusivamente carpite, in
primis l'ex barbiere Le Dain nominato conte di Meudon
e Doyne nominato governatore di Auvergne, entrambi emeriti furfanti, e il perfido e indegno
medico personale del sovrano Jacques Coittier. Tanti altri, invece, subiscono anche torture o finiscono
al patibolo.
Francesco deplora questi atteggiamenti contrari alla pietà cristiana, ma si mantiene con estrema cura lontano da ogni
indebita ingerenza negli affari di Stato. La sua risposta agli eccessi è il suo stile di vita, l'esortazione costante alla pratica di
vita cristiana, alla pietà e all'amore di Dio e dei fratelli. La sua sola presenza a corte modera i comportamenti della
nobiltà e incute rispetto e affetto sincero, al punto che i nobili si disputano il privilegio di avvicinarlo e ascoltarne gli
insegnamenti e le esortazioni.
Alla morte del sovrano, Francesco fa ritornare in Italia il padre Giovanni Cadurio e rimane con il padre Bernardino Otranto e il nipote
fra' Nicola d'Alessio, fino a quando lo raggiungeranno il padre Baldassarre Spino e il padre Lorenzo Delle Chiavi (o Clavense), che
ne diverrà il primo biografo.
Intanto i frati eremiti di fra' Francesco di Paola, come ancora sono denominati, diventano sempre più numerosi anche in
terra di Francia. La benevolenza e l'ammirazione che suscita Francesco nella Gerarchia ecclesiastica di Francia, fra i primi il Cardinale
Elia de Bourdeille Arcivescovo di Tours, consentono l'istituzione di nuove
comunità in ogni angolo del regno più importante d'Europa.
Alcuni religiosi hanno la fortuna di potere vivere con lui nella residenza di San Matteo, nel castello di
Plessis-du-Parc, donata da Luigi : Germain Lionet, che sarà il primo
Correttore dell'Ordine dopo Francesco, Mathieu Michel, Denis Barbier de Alençon, François
Cérdonis, Jacques l'Espérvier, Martiale Désvoisins, Jean Abundance e François Binet.
Il 29 agosto del 1484, alla morte di Sisto IV, viene eletto Papa il Cardinale Giambattista
Cibo con il nome di Innocenzo VIII. Francesco si affretta a richiedere al nuovo Pontefice la
conferma dei privilegi concessi dal suo predecessore al suo Ordine. Il 21 marzo 1485 il Papa riconosce, con la sua costituzine
Pastoris Officium, tutto quanto stabilito sia dall'Arcivescovo di Cosenza Pirro Caracciolo sia dal defunto
Pontefice Sisto IV.
Nel 1485, per derimere la controversia sulle contee del Roussillon e di Cerdagna regolata a suo tempo
da Luigi con un trattato ma non ancora definita, Ferdinando V il Cattolico invia a
Tours con potere di ambasciatore il conte don Pedro de Lucena Olit. Al suo seguito vi è un
gentiluomo nativo di Andujar, in Andalusia, Fernando Panduro, che entrerà nell'Ordine e ne sarà strenuo
propagatore in Spagna.
Poco tempo dopo, il re Ferdinando V, per concludere la questione aperta con Carlo
VIII, invia alla corte di Francia il padre eremita benedettino Bernal Boyl. Boyl incontra
più volte Francesco, che gli risveglia il desiderio da sempre presente in lui di vita più umile e penitente.
Tornato in Spagna Boyl riferisce l'esito delle trattative e riparte immediatamente per Tours, dove chiede
ed ottiene di indossare il saio. Padre Bernal Boyl, dietro esplicita richiesta dei sovrani di Castiglia e su licenza del Santo Padre
Alessandro VI, il 25 settembre 1493 segue Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio
verso il Nuovo Mondo come primo missionario in quelle terre. Contrastato nella sua opera evangelizzatrice da chi avrebbe dovuto
agevolargli il compito, chiede ed ottiene di ritornare in patria, dove si occupa del completamento del convento di Malaga.
Nel 1487 Ferdinando V, per rimuovere dalla Spagna l'ultima traccia della dominazione
musulmana, pone l'assedio a Malaga, che fa parte del reame moresco di Granata, ma, dopo alcuni mesi di inutili tentativi di
espugnare la città, decide di abbandonare l'impresa.
Francesco a Tours apprende da don Pedro de Lucena Olit delle vicissitudini del conflitto e, ispirato da Dio,
invia a Malaga da Ferdinando V i padri Bernardino Otranto e Jacques
l'Espérvier, per scongiurare il re di non desistere perchè il Signore avrebbe benedetto il suo esercito e
consentito piena vittoria. Ferdinando da credito ai frati e, senza spargimento di sangue, riesce a prendere in modo insperato
Malaga. I mori, asserragliati nella città e ormai ridotti allo stremo dall'assedio, si arrendono o fuggono e i loro capi
Amarbon Amar e Alì Dardux escono a firmare la resa. Il popolo spagnolo in segno di
gratitudine verso Francesco comincia a chiamare quei frati i frares de la victoria. Ferdinando invia a
Francesco un'ambasceria per ringraziarlo e, sul luogo dove era stata eretta la tenda reale, fa erigere una chiesa in onore della
Santa Maria della Vittoria. Il 2 gennaio 1492, entusiasmato dalla vittoria di Malaga e assistito dalle preghiere e dal conforto di
Francesco, Ferdinando assedia ed espugna Granata e pone sull'Alambra il gonfalone con il Crocifisso d'argento, dono di Sisto
IV, ponendo fine alla plurisecolare dominazione musulmana nella
penisola. Mantenendo la promessa di gratitudine fatta a Francesco, Ferdinando fa donazione di un romitorio per i frati e concede
l'autorizzazione e tutti i privilegi per fondare ovunque in Spagna istituti e conventi dell'Ordine.
Massimiliano I d'Austria, conoscendo il valore di questo umile fraticello e desideroso di
beneficiare per se e per il suo popolo del suo stile di vita e del suo insegnamento, invia a Tours una
delegazione per chiedere a Francesco di istituire comunità anche nel suo regno.
Francesco, che ha a cuore la maggior Gloria di Dio e la diffusione dell'amore per i fratelli più di ogni altra cosa, acconsente senza
esitare e nel 1497 invia in Austria un gruppo di suoi religiosi francesi guidati da padre Denis Barbier de
Alençon, che fonda tre conventi : Sant'Andrea a Krumau sulla Moldava, Sant'Anna a
Vartemburg in Baviera e Santissima Trinità a Fristritz in
Boemia. Questi conventi saranno saccheggiati e distrutti dagli eretici tedeschi, ma più tardi ricostruiti dalla provincia
monastica dell'Ordine.
Dopo avere dato fondo alla sua insensata irruenza giovanile, il re Carlo VIII che alla
maggior'età era asceso al trono e successivamente aveva sposato Anna di Bretagna, divenuto più saggio e
attento ai consigli morali di Francesco, si occupa con cura del governo del regno, rendendo meno gravoso l'onere dei suoi sudditi e
praticando con solerzia la giustizia.
Il 7 aprile 1498 Carlo, recandosi ad assistere con la regina al gioco della pallacorda, batte violentemente la testa contro un
architrave basso e in poche ore muore, assistito dal suo confessore Vescovo di Angers. Nei momenti
di lucidità invoca l'aiuto di Dio, della Santa Vergine e dei Santi. Carlo non lascia eredi diretti e gli succede sul trono Luigi
Duca di Orléans che aveva sposato, costretto con minacce dal re Luigi
XI, la sorella Giovanna di Valois.
La figura di Giovanna, votata alla sofferenza accettata cristianamente ad emulazione della croce di Crocifisso, disprezzata dal padre
Luigi XI per la sua pietà religiosa e il suo aspetto non gradevole, maltrattata
dallo sposo impostole ancora giovanissima dal padre e ripudiata appena questi ascende al trono di Francia, è un esempio
di vera eroicità di vita cristiana. Sarà beatificata da Pio XII il 28 maggio
1950 e il Terz'Ordine dei Minimi la eleggerà Patrona insieme con San François de Sales,
entrambi terziari minimi.
All'ascesa al trono di Luigi XII, Francesco ritiene conclusa la sua missione e, per potere
ritornare nella sua Calabria unico desiderio personale coltivato, invia al re una supplica per il rilascio di un salvacondotto. Il re, pur
conoscendo la fama di Francesco ma troppo occupato nel consolidare il suo potere personale per tenerlo in alcun conto, non
esita a concederlo.
Appena si diffonde la notizia della partenza di Francesco, tutti si rivolgono al re per invitarlo a revocare il salvacondotto e
trattenerlo. Fra i più insistenti è il Cardinale George Amboise Vescovo di Rouen. Luigi
cede alle insistenze che gli vengono da ogni parte, dà l'ordine di trattenere Francesco e di ricondurlo a corte. Sulla strada
di Lione Francesco viene raggiunto e, come sempre obbediente al Volere di Dio, ritorna sui suoi passi. Dopo alcuni giorni dal rientro
il re Luigi fa visita a Francesco, resta con lui in colloquio per alcune ore e all'uscita, come riferiscono alcuni testimoni, esclama:
"Io non avrei mai creduto che vi fosse in terra un uomo così santo. Vi giuro che egli mi ha svelato segreti della mia
coscienza, che non erano noti se non a Dio soloè. I dignitari di corte, come il Cardinale George Amboise
e Simon Robertet, non cessano di illustrare il sovrano sulle doti del frate e suoi vantaggi di potere beneficiare dei suoi
consigli.
Francesco, pur non lesinando i suoi aiuti ai governanti della terra che lo ospita con tanto affetto, si dedica prevalentemente alla
definizione della Regola del suo Ordine e ad ottenere dal Santo Padre il riconoscimento dell'obbligo della vita quaresimale per i suoi
frati penitenti.
Ormai le comunità dei frati eremiti sono diffuse in ogni parte del continente europeo e i nomi con i quali vengono chiamati
sono molteplici : in Calabria "Romiti di Paola", a Genova "Frati del principe d'Oria", a
Tours "Bonhommes", a Tolosa "Rocchetti", in Spagna
"Frares de la Victoria".
Il Cardinale Rodrigo Borgia, salito al pontificato alla morte di Innocenzo VIII l'11 agosto
1492 con il nome di Alessandro VI, conferma quanto già stabilito dai suoi
predecessori e attribuisce un nuovo nome Ordine dei Minimi, in ossequio all'umiltà di Francesco e per rispetto del suo
modo di definirsi frate Francesco di Paola minimo delli minimi servi di Giesù Christo benedetto.
Alla morte del Papa Alessandro VI e dopo il breve pontificato di Pio
III, meno di un mese dal 22 agosto al 18 settembre 1503, è eletto Papa Giulio
II, il Cardinale Giuliano della Rovere nipote di Sisto
IV che Francesco aveva indicato come colui che avrebbe concesso il voto della quaresima
perenne.
Il Santo Padre, con la lettera Ex debito pastoralis officii del 10 giugno 1505, concede il quarto voto della
quaresima perenne, approva la Regola, conferma tutti i privilegi riconosciuti dai suoi predecessori e ne aggiungi di nuovi.
Il 28 luglio 1506 Giulio II approva, con la bolla Inter caeteros regularis
observantiae professores, le Regole definitive del Primo Ordine, del Secondo Ordine, quello femminile di clausura, e del
Terzo Ordine, dei laici, e, con la bolla Pastoris officii nobis commissa cura, il Correttorio, la Regola penale
dell'Ordine.
Ormai le forze di Francesco novantenne cominciano a cedere. Verso metà quaresima del 1507 Francesco comincia ad
avere una febbricola continua.
Il 28 marzo, Domenica delle Palme, la febbre sale e resta alta anche nei giorni seguenti.
Nonostante la febbre Francesco, sentendo l'approssimarsi della sua morte, non allenta le sue penitenze né aumenta le sue
ore di riposo.
La mattina del 1 aprile 1507, giovedì santo, riunisce nella sala del Capitolo i suoi confratelli per le ultime raccomandazioni,
poi, sorretto da alcuni religiosi, si reca in chiesa per assistere alle funzioni del giovedì santo.
Il testimone 38 del processo turonense, padre Léonard Barbier, racconta quei momenti :
"...aiutato da alcuni religiosi, si recò in chiesa e premessa un'umile e devota preparazione, dopo che tutti i Padri si
accostavano all'altare, tra le lacrime, inginocchiato, avendo precedentemente messo al collo il cingolo che portava, com'è
consuetudine dell'Ordine, e recitate la preghiera di san Gregorio e alcune altre, devotamente e con umiltà ricevette il
Sacramento dell'Eucarestia. Dopo qualche tempo si recò in coro per assistere al sacro rito. Avendo però i religiosi
visto che le forze gli venivano meno lo condussero nella sua cella".
Il pomeriggio, nonostante fosse prostrato fortemente dalla febbre, assiste alla funzione della lavanda dei piedi e alla S. Messa in
Coena Domini. Il padre Correttore vorrebbe lavargli i piedi, ma lui ritenendosi indegno si ritrae
amorevolmente e sussurra : "Figliolo, aspetta fino a domani e mi laverai non solo i piedi, ma il capo e tutto il corpo".
Il giorno successivo 2 aprile 1507, venerdì santo, di buon'ora chiama a se tutta la comunità dei frati, li ammonisce
a perseguire nel rispetto della santa Regola e dell'amore di Dio e del prossimo e affida al padre Bernardino Otranto il governo
dell'Ordine fino al successivo Capitolo.
Impartisce la paterna benedizione ai tutti i confratelli e chiede che gli vengo letto il brano della Passione di nostro Signore da Vangelo
di San Giovanni, mentre i confratelli in ginocchio recitano i salmi penitenziali e le litanie dei santi.
Verso le dieci di quel mattino, pronunciate queste parole riferite da tutti i presenti: "O mio Signore Gesù Cristo!
O Buon Pastore, conserva i giusti, giustifica i peccatori, abbi misericordia dei fedeli defunti, e sii propizio a me miserabilissimo
peccatore. Amen!", con il nome di Maria e di Gesù sulle labbra, rese la sua Anima
benedetta a Dio.
Nato di venerdì, muore di venerdì dopo novantun'anni di penitenza e preghiera, in adorazione continua del Santo
Mistero della Passione e Morte di nostro Signore Gesù Cristo.
Appena la notizia della morte del bonhomme, come affettuosamente e rispettosamente i francesi
chiamavano Francesco, si diffonde una folla incontenibile di nobili, dignitari di corte e popolo minuto accorre nella cella del frate,
lasciando ogni occupazione, per vederlo un'ultima volta e impetrare da lui intercessione, ora che è al cospetto di Colui
che ha tanto amato.
Il padre Alfredo Bellantonio dei Minimi, nella sua biografia, descrive egregiamente, basandosi su testimonianze dirette e documentate,
il clima al momento dei funerali solenni :
"Il 5 aprile 1507, lunedì dopo Pasqua, la chiesa di Montils era gremita di fedeli.
Assiepate lungo la strada ad essa prospiciente, seimila persone, venute da Tours e dintorni, chiedevano
di vedere per l'ultima volta le sembianze dell'eremita santo: fra' Francesco di Paola. La sua salma era composta per l'ufficio funebre
e intorno ad essa le forze militari stentavano a contenere gli eccessi di devozione del popolo. Venti gentiluomini s'erano già
divisa gran parte della tonaca per averla come preziosa, altri si erano impossessati del cilicio, della disciplina e di una cinta di cuoio
che rivestivano le sue carni.
Quel corpo nell'immobilità della morte parlava ai vivi di abnegazione, di carità, di zelo, di pace, e ricapitolava in sintesi un
programma, una vita di autorevoli insegnamenti.
Coloro che erano convenuti al primo annuncio del suo trapasso, erano là per farsi discepoli del suo passato, per ricalcare
con la mente e con il cuore la sua eccezionale figura di asceta, di mistico, di anacoreta e di apostolo, che nulla aveva perduto della
sua singolarità".
La regina di Francia Anna di Bretagna, per la prodigiosa guarigione della figlioletta Cluadine, è la prima a promuovere presso
il Santo Padre la causa di beatificazione di Francesco, seguita subito dai sovrani di tutta Europa e da un gran numero di nobili.
La principessina Claudine ad appena nove anni era già ambita in sposa da Francesco
d'Orléans, figlio del conte Carlo d'Angoulême e di Luisa di Savoia,
e da Carlo d'Austria, figlio dell'arciduca Filippo e di Giovanna d'Aragona. Verso la fine di aprile del 1507, mentre si trova nel castello
di Tours, viene colpita da una febbre maligna che i medici non riescono a curare e che la porta
rapidamente al pericolo di vita. La regina Anna, consigliata dal Vescovo di Grenoble monsignore
Allemand che aveva conosciuto l'eremita e ne conservava grande stima e devozione, prega Francesco
di intercedere per la sua salvezza, facendo voto di promuovere la causa della sua beatificazione. Mentre il Vescovo
Allemand è in visita dalla regina Anna nel castello di Mont-Bernard nel
Delfinato, dove dimorava quando la bambina si era ammalata, un messo reca la notizia dell'improvvisa e completa guarigione della
principessina Claudine.
Il 13 maggio 1512 il Papa Giulio II, accogliendo le istanze di tanti illustri postulatori, emana
un Breve che istituisce tre inchieste per la beatificazione: una per la Francia, una per Cosenza e una per la Calabria. Il 21 febbraio
1513 muore Giulio II e il 3 marzo 1513 gli succede il Cardinale Giovanni de' Medici con
il nome di Leone X. Il 7 luglio 1513 Papa Leone X,
come aveva predetto Francesco incontrandolo a Roma nel suo viaggio verso la corte di Francia, lo decreta Beato.
Alla morte di Luigi XII avvenuta il 1 gennaio 1515, succede sul trono di Francia il duca
di Valois Francesco I, che la madre Luisa di Savoia volle chiamare
col nome dell'eremita per stima e devozione verso di lui, sposo della principessa Claudine beneficata dal Santo, fu grande
estimatore di Francesco e del suo Ordine. Prima ancora di salire sul trono, il 7 dicembre 1514, esenta l'Ordine dalla tassa di pedaggio
per il trasporto dei viveri e di qualsiasi altra merce necessaria alla vita nei conventi. Salito sul trono si impegna immediatamente a
perorare presso la Santa Sede la canonizzazione di Francesco. La regina Claudine non è da meno. Madre di due bambine,
Louise e Charlotte, desidera ardentemente la nascita di un figlio maschio per la successione e fa voto al
Beato Francesco di promuovere la richiesta di canonizzazione.
Francesco e Claudine non aspettano di vedere appagato il loro desiderio e iniziano sùbito a perorare la causa presso il
Santo Padre Leone X. Il 28 febbraio 1518 Claudine partorisce un figlio maschio, al quale
da il nome di Francesco.
Di nuovo tutte le dinastie d'Europa, ma anche persone di ogni livello sociale, fanno a gara nel richiedere alla Santa Sede il
riconoscimento della Santità di Francesco.
Dopo avere escusso un numero inverosimile di testimoni oculari di fatti prodigiosi, così elevato da costringere gli istruttori
delle cause a chiudere i tre processi turonense, cosentino e calabrese, prima ancora di averli ascoltati tutti lasciandone inascoltati
un gran numero, il 1 maggio 1519 domenica in Albis festività dei santi Filippo e Giacomo, il Papa Leone
X nel corso di una cerimonia solenne, alla presenza di tutte le Gerarchie della Chiesa,
proclama la Santità di Francesco di Paola con la sua Bolla Excelsus Dominus e ne istituisce la
festa solenne il 2 aprile del calendario universale.
Alla morte di Francesco, erano già state istituite trentadue comunità in otto province monastiche, tre in Italia, tre
in Francia, una in Spagna e una in Germania.
Nella seconda metà del XVIII secolo, prima che il terrore della Rivoluzione Francese
devastasse l'Europa, si contano circa cinquecento comunità e conventi in tutti i continenti, con oltre novemila religiosi.
Un decreto napoleonico del 25 aprile 1800 sopprime, assieme agli altri, l'Ordine dei Minimi in Francia e in Italia e confisca tutti i loro
beni. Al suo ritorno a Roma, nel 1814, Pio VII motu proprio
ristabilisce l'Ordine dei Minimi.
Scacciato dal suo regno dai francesi, Francesco I di Borbone re di Napoli fa voto a San
Francesco di Paola che, se ne rientrer à in possesso, far à erigere nella capitale un tempio votivo al
Santo. Rientrato a Napoli nel 1815 inizia subito i lavori dell'attuale Basilica, di fronte al Palazzo Reale sul sito che Francesco
aveva indicato nel suo transito da Napoli in viaggio verso la Francia, che sarà ultimata nel 1836 dal suo successore
Ferdinando II.
Nel 1890, dopo l'Unità d'Italia, il governo decreta la confisca di tutti i beni ecclesiastici e ai religiosi dell'Ordine viene imposto
di disperdersi sul territorio e gli viene fatto esplicito divieto di dimorare per più di due nel medesimo fabbricato.
Il 27 marzo del 1943 il Papa Pio XII, con Lettera Apostolica Quod
Sanctorum Patronatus, proclama San Francesco di Paola Patrono dei Marinai d'Italia.
Nella seconda metà del XX secolo l'Ordine vede un avvio di rinascita,
prevalentemente nell'Italia meridionale e in America latina. Anche l'Europa dell'est, dopo l'implosione dell'impero sovietico del
1989, riscopre la valenza civile, oltre che religiosa, della vita monastica improntata alla penitenza, all'umiltà e alla
preghiera, secondo lo stile di vita del Santo Eremita di Paola.
La popolazione cattolica di Brno nella repubblica Ceka, dove nei tempi era una comunità di religiosi Minimi, ha chiesto ed
ottenuto dal Correttore Generale dell'Ordine di ripristinare la comunità.
Francesco ha saputo vincere le calamità del suo tempo con l'esempio dell'umiltà, della preghiera e della penitenza,
conquistando inesorabilmente il cuore dei potenti.
Questo carisma dei minimi, voluto e vissuto da Francesco, è stato indicato da Sua Santità Giovanni Paolo
II come strumento efficace per perseguire la Nuova Evangelizzazione, necessaria alla
società attuale per rifondare una Civiltà ormai estinta.
Vittorio Morrone
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Bibliografia
Pubblicato a puntate su "Il Corriere del Sud" [www.corrieredelsud.it] nei numeri 4-5-6-7-8-9 Marzo - Maggio 2002.
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Fonte: Il Corriere del Sud - Autore: Vittorio Morrone
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